Carlo C. di Santafusca – Il Primato Nazionale 31 maggio 2019

E’ notizia di questi giorni di come il governo gialloverde abbia stanziato oltre un milione di euro per le associazioni partigiane. Una cifra enorme. La maggiore associazione partigiana, l’Anpi, vanta 130mila iscritti: di questi, solo novemila sarebbero davvero ex partigiani, anche se la cifra ci sembra eccessiva se non altro per ragioni anagrafiche. Nessuno degli altri 120mila, ovviamente, ha fatto la guerra e non ha neanche prestato servizio militare. Secondo i dati dell’Anpi, coloro che avrebbero ufficialmente partecipato alla guerra di liberazione erano 8000 nel 2014, circa 6700 nel 2015 e 5000 nel 2016. Riducendosi di circa 1500 ogni anno, entro il 2020 non ce ne sarà più nessuno. Ma l’Anpi continuerà ad essere piena di iscritti, giacché aperta a chi condivida i valori dell’antifascismo

Chi, invece, il servizio militare e magari la guerra, pudicamente mascherata come Missioni di pace all’estero, l’ha fatta davvero viene considerato assai meno dall’attuale governo. Pensiamo ai militari che negli anni ’80 hanno prestato servizio in Libano o quelli che, negli anni ’90, sono stati in missione in Somalia, in Afghanistan, in Bosnia, in Kossovo, in Iraq o nelle missioni Nato, iscritti alle Associazioni d’Arma, ricevono assai meno risorse rispetto all’Anpi ed alle altre associazioni partigiane, che pure rispetto alla prima ricevono solo le briciole. E non ci si venga a dire che l’Anpi abbia maggiore titolo morale, per dire, dell’Associazione Nazionale Alpini con il suo mezzo milione di iscritti e ben più presente sul territorio, anche come Protezione civile.

Cos’è l’Anpi?

Alla data del 5 aprile del 1945, anno in cui venne designata come ente morale, l’Anpi comprendeva unitariamente tutti i partigiani italiani ed era retta da un consiglio formato da rappresentanti delle varie formazioni che avevano operato in tempo di guerra, ma già nel primo Congresso nazionale, indetto a Roma nel 1947, fra le varie componenti emersero divergenze in ordine a questioni di politica interna ed estera, soprattutto per la subalternità dei comunisti alla politica sovietica, di cui i reduci delle brigate Garibaldi – che, lungi dall’aver deposto le armi continuavano ad essere il braccio armato in Italia, proseguendo nell’azione di soppressione anche fisica di chi fosse considerato non solo fascista o reduce della RSI, ma anche un avversario politico, anche se partigiano, o nemico di classe, soprattutto in aree come certe zone del Veneto e del Piemonte ma soprattutto nel famigerato Triangolo della Morte emiliano, che Guareschi ribattezzò sul Candido il Messico d’Italia – erano il braccio armato. Senza pensare all’appoggio fattivo dei comunisti italiani alla pulizia etnica in Istria e Venezia Giulia, con episodi che coinvolsero anche partigiani non comunisti, come alle Malghe di Porzus, a Gorizia, a Trieste, perché contrari alle mire titine sul confine orientale.

Divisioni iniziate già durante la guerra, dal momento che i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la resistenza muoveva i primi passi: volevano essere la forza principale della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: imporre la dittatura del proletariato e fare dell’Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare di impronta stalinista schierata con l’Unione Sovietica.

Il colonnello statunitense John H. Hougen nella sua The Story of The Famous 34th Infantry Division scrisse:

Gli uomini della 34th Division videro fuggire presunti fascisti falciati dagli incalzanti partigiani e furono testimoni di massacri di massa di uomini cui non era stata concessa neppure una parvenza di processo. Questa anarchia durò fino a quando gli alleati e il governo italiano riconosciuto presero il controllo della situazione con mani forti e fecero inutili sforzi per indurre i partigiani a deporre le armi e dedicarsi ad opere di pace. Nonostante anche promesse di ricompense il tentativo fallì e allora dovettero imparare che gli estremisti partigiani erano comunisti fanatici i cui scopi e obiettivi manifesti erano di ottenere il controllo dell’Italia. Con la massima franchezza ci informarono che le armi e le munizioni nascoste sulle montagne sarebbero state in breve rivolte contro gli odiati capitalisti[1].

Anche il colonnello brasiliano Adhemar Rivermar de Almeida nel suo Montese. Marco Glorioso de uma Trajetoria non dà un quadro migliore dei partigiani comunisti:

La nostra missione si riduceva praticamente a custodire alcuni servizi pubblici e a reprimere le manifestazioni che perturbavano l’ordine causate dal permanere di atti di vera e propria barbarie provocati dai partigiani, atti che erano in contrasto con l’elevato livello di civiltà degli abitanti del nord della penisola italiana. Da tutte le parti si evidenziava una grande attività dei comunisti avidi di conquistare il potere[2].

Per inciso, storicamente è quantomeno inesatto definire combattenti della libertài partigiani comunisti che combattevano con lo scopo dichiarato di instaurare una dittatura di tipo sovietico sotto l’egida dell’URSS di Stalin, di sicuro non più democratica di quella mussoliniana. I succitati brani dimostrano come anche gli alleati ne fossero coscienti e preoccupati.

Per raggiungere tale scopo rivoluzionario ogni mezzo era buono, dalla soppressione dagli avversari, anche appartenenti a formazioni partigiane di diverso orientamento, si pensi alle già citate malghe di Purzus o alle sospette morti di comandanti come Lupo e Bisagno, sino alla delazione, come avvenne a Roma con le denunce che portarono alla distruzione dei trotzkisti di Bandiera Rossa, i quali per i comunisti erano, come già in Spagna, avversari quanto i fascisti, massacrati alle Fosse Ardeatine.

Di ciò i vertici della resistenza non comunista erano ovviamente ben consci.

Bisogna qui ricordare Giovanni Pesce, il nome di copertura era Visone, aveva comandato i Gap di Milano, i piccoli nuclei partigiani comunisti che agivano in città con attacchi di pretto stile terroristico, assassinando alle spalle con colpi di pistola l’obbiettivo, di solito isolato: caddero così Ather Capelli a Torino – ucciso proprio da Pesce – Aldo Resega a Milano, Igino Ghisellini a Ferrara, l’archeologo Pericle Ducati a Bologna, il filosofo Giovanni Gentile a Firenze.

All’inizio del 1948, Pesce era il segretario provinciale dell’Anpi di Milano, il 29 febbraio di quell’anno, nella relazione al congresso che l’avrebbe rieletto, Pesce ebbe accenti di grande asprezza nei confronti dei partigiani anticomunisti usciti dall’Anpi: li accusò di utilizzare il denaro della Confindustria, e non per fini assistenziali, bensì per costituire delle squadre filo-fasciste. E subito dopo dichiarò che l’Anpi avrebbe sostenuto il Fronte Popolare, perché, spiegherà poi, era il naturale sbocco delle nostre attese democratiche. Il libro di Pesce – non scritto da lui, uomo di mediocrissima se non nulla cultura, ma da Roasio, esponente del Pci – La guerra dei GAP sarebbe divenuto il livre de chevet dei brigatisti rossi negli anni settanta.

La sconfitta del Fronte nelle elezioni del 18 aprile aveva esasperato i partigiani comunisti. Sette giorni dopo il voto, ossia il 25 aprile 1948, a Milano si stava celebrando la liberazione. Tra gli oratori c’era Ferruccio Parri, accanto a Luigi Longo. I comunisti cominciarono a fischiarlo, per impedirgli di parlare. Allora Parri interruppe il discorso e scese dal palco.

Non meraviglia pertanto la fuoriuscita dall’Anpi nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti ed i tentativi di insurrezione armata dei partigiani comunisti, dei partigiani monarchici, dei cattolici e degli autonomi che costituirono la Federazione Italiana Volontari della Libertà, Fivl, presieduta dapprima dal generale Raffaele Cadorna, già comandante militare della resistenza, ultimo Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito e primo dell’Esercito italiano (per comprendere il personaggio, nell’aprile 1945, avendo avuta notizia di un progettato assalto a San Vittore dei comunisti per assassinare il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, Cadorna si chiuse nella cella con lui, armato, per difenderlo sino alla consegna agli statunitensi; nel 1965 rifiutò di partecipare alle cerimonie ufficiali a Milano, presente il presidente Saragat per il ventennale della liberazione, per seguire invece una conferenza del circolo Rex sui cinquant’anni della Grande Guerra, affermando di sentirsi guerriero e non guerrigliero, soldato e non ribelle) poi da Enrico Mattei, quindi dopo la sua morte, da Mario Argenton, da Aurelio Ferrando e da Paolo Emilio Taviani.

Facevano parte del primo Consiglio Direttivo Nazionale della Fivl Enrico Mattei, Raffaele Cadorna, Mario Argenton, Eugenio Cefis, Mario Ferrari Aggradi, Giovanni Marcora, Paolo Emilio Taviani, Aurelio Ferrando Scrivia, Aldo Sacchetti, Lelio Speranza, le Medaglie d’Oro al Valor militare Edgardo Sogno, Paola Del Din, Rino Pacchetti, Enrico Martini Mauri ed altri esponenti della Resistenza non comunista, seguiti, nel 1949, delle componenti azioniste, legate a Giustizia e Libertà, da cui nacque la Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane (Fiap) che ebbe come primo Presidente Ferruccio Parri, Maurizio, già Presidente del Consiglio. La separazione dall’Anpi era stata decisa da Ferruccio Parri, da Antonio Greppi, sindaco socialista di Milano, da Piero Calamandrei (che si era riuscito a riciclare come partigiano!), da Leo Valiani, da Giuliano Vassalli e da Aldo Aniasi Iso. Come scrisse lo stesso Aniasi, ciò avvenne con lo scopo di

Riaffermare un impegno di libertà e in salvaguardia dei valori della Resistenza nella completa indipendenza da ogni partito o raggruppamento politico. 

Disse Parri che

Vogliamo riunire non la totalità dei partigiani, ma soltanto quelli legati dalla fede nella libertà e dalla volontà di difenderla. A chi ci rimprovera di rompere l’unità partigiana a profitto della reazione, rispondiamo che è la pretesa di monopolio del Pci che ha fatto il gioco delle forze reazionarie. Infine, concluse Parri, a rompere l’unità della Resistenza raffigurata dall’Anpi è la pressione da carro armato della potenza sovietica sui paesi dell’Est e sull’Europa al di là di essi, a Berlino, a Praga, a Belgrado.

Insomma, per l’ex comandante giellino i partigiani rossi non avevano nulla a che fare con la libertà, ma erano strumenti dell’imperialismo sovietico. E ancora, con parole che oggi sarebbero accusate di revisionismo dall’Anpi:

Nell’ultima fase della lotta partigiana fu ben dannoso l’ingrossamento della penultima ora. E più ancora la valanga di eroi della sesta giornata, che hanno fornito la massima parte degli avventurieri imbroglioni e profittatori: quelli che, intervenendo nel dopoguerra, hanno servito di pretesto ai nostri avversari. Venne poi la politica dell’organizzazione controllata dai comunisti per allargare le maglie, per moltiplicare le truppe. Noi preferiamo la qualità. Primo requisito dei nostri iscritti, dice il nostro statuto, deve essere la moralità nella vita pubblica e privata Noi abbiamo e dobbiamo avere sempre una sola legge: quella della verità e della giustizia.

Fedeli all’idea comunista

Insomma, già allora, come oggi, per i comunisti l’esser stati partigiani non contava molto: piuttosto contava la fedeltà all’idea comunista, l’esser pronti alla seconda ondata, esattamente come oggi in cui in nome dell’antifascismo si intruppano nell’Anpi ragazzotti da centro sociale e veterani del ’68 e del ’77 a sostituire i sempre meno numerosi partigiani (ovviamente solo quelli comunisti!) in nome dell’antifascismo, continuando però a definirsi associazione partigiana ed ad incassare i finanziamenti pubblici. E, allora come oggi, chi aveva un’altra idea era semplicemente bollato come fascistaIn pratica, i fondatori della Fivl e della Fiap avevano rotto con l’Anpi perché la ritenevano troppo succube del Pci di Togliatti e degli interessi dell’Unione Sovietica di Stalin.

Di fatto, l’Anpi era uno dei bracci della politica comunista in Italia. Una politica che aveva come stella polare la totale fedeltà a Mosca e a Stalin, ed era destinata, in caso di guerra, a ricoprire nuovamente il ruolo di quinta colonna in appoggio alle truppe del Patto di Varsavia, e, ancora una volta di eliminazione degli elementi ostili, di sabotaggio di caserme: quella che sarà poi definita la Gladio Rossa, le cui mosse erano controllate dal servizio informazioni militare, il SIFAR, soprattutto su istanza del ministro della difesa Randolfo Pacciardi, che i comunisti li conosceva- e li temeva- da quando aveva combattuto in Spagna nella Garibaldi.

Del resto, da Togliatti a Longo, Secchia, Barontini, Vidali, i leader erano tutti legati al GRU (il servizio di informazioni militare sovietico) ed alle purghe contro anarchici e trotzkijsti nella Spagna del 1937. È  importante sottolineare il legame di totale subordinazione del Pci e della sua classe dirigente al Pcus ed al governo sovietico prima, durante e soprattutto dopo il conflitto mondiale. Ciò riguardava tutte l’associazionismo di Botteghe Oscure, dall’Unione Donne Italiane, al Fronte della Gioventù (poi Federazione Giovanile Comunista, niente a che vedere con l’omonimo e più tardo FdG missino) ma soprattutto l’Anpi, nel quale era confluita la massima parte dei partigiani comunisti, ovvero quelli che durante la guerra civile erano stati i più combattivi ed efficienti tra i guerriglieri sul fronte italiano, e che spesso non avevano deposto le armi, convinti della necessità di continuare il processo rivoluzionario (si pensi alla milanese Volante rossa). Elementi, a questo punto, spesso scomodi, anche per il radicalizzarsi della reazione governativa: dopo l’attentato a Togliatti e l’assassinio brutale di un maresciallo dei Carabinieri e di un poliziotto ad Abbadia San Salvatore l’ultimatum delle Forze dell’Ordine era stato brutalmente chiaro: I tedeschi hanno fatto dieci per ognuno dei loro: noi faremo cento per ognuno dei nostri. E il ministro degli interni Scelba nella legge che porta il suo nome aveva parificato l’apologia di fascismo con il comunismo, proponendo di fatto di mettere fuorilegge il Pci, anche se De Gasperi stralciò la parte relativa per timore di una guerra civile.

Le fughe verso il socialismo reale

Fatto sta che per il Pci – e perciò per l’Anpi – la presenza di personale addestrato e combattivo, spesso macchiatosi di crimini che neppure l’amnistia Togliatti aveva cancellato, essendo stati commessi a guerra finita, era divenuta scomoda in Italia, ma poteva essere utile all’estero. Così iniziò il fuoriuscitismo prima verso la Jugoslavia, e, dopo la rottura di Tito con Stalin, verso la Cecoslovacchia, dove le capacità militari e l’affidabilità politica degli ex partigiani venne sfruttata sul piano dell’intelligence, della propaganda radiofonica e dell’addestramento militare, esattamente come avvenutao tra le due guerre. Si trattava, ovviamente, di qualcosa di assolutamente ostile alle istituzioni della repubblica italiana nata dalla Resistenza, come oggi l’Anpi non manca mai di sottolineare. Tra di loro vi era Francesco Moranino detto Gemisto, comandante partigiano condannato all’ergastolo non per il massacro di prigionieri della RSI schiacciati sotto i camion, ma per le sevizie e le uccisioni di mogli di partigiani non comunisti e quindi nemici del popolo. E’ una pagina di cui il Pci e l’Anpi parlavano e parlano poco, e che merita di essere ricordata.

Sul finire degli anni Quaranta, per sfuggire alla cattura, 466 partigiani comunisti italiani (i più del Triangolo della morte emiliano, alcuni della Volante rossamilanese tra i quali il capo dei terroristi della Volante , Giulio Paggi, il comandante Alvarotrovarono rifugio in Cecoslovacchia. Sull’argomento esiste il libro apologetico di Giuseppe Fiori, Uomini ex, ovvero Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani pubblicato da Einaudi nel 1993. La storia amara, disperata, di un sogno- noi diremmo icubo!- esportato, insieme alle esistenze compromesse di chi non aveva consegnato le armi ed avevo continuato ad ammazzare a guerra finita. Un progetto uscito clandestino dall’Italia e trasferito a Praga, terra del socialismo reale. In Cecoslovacchia si arrivava solo attraverso i canali del partito.

Il partito comunista, tramite le sezioni dell’Anpi, forniva i documenti falsi, l’organizzazione d’appoggio e il collocamento in Cecoslovacchia procurando un alloggio e un lavoro adatto alle capacità individuali. Gli intellettuali erano in forza a Oggi in Italia, programmazione del Pci che s’appoggiava a Radio Praga, bollettino in italiano dalla terra del socialismo, leggi propaganda e disinformazione, cui collaborò il futuro direttore del Tg3 in quota Pci Sandro Curzi, quello di Telekabul.

Gli illetterati – i gorilla più adatti a usare il mitra che il cervello – venivano mandati a lavorare in campagna o nelle fabbriche ceche. Tutti gli esuli erano comunque più che tutelati dal partito. Ed erano controllati. Il Pci aveva una vera e propria succursale in Cecoslovacchia, con i suoi commissari politici e tutto il resto, ed i cechi offrivano sì ospitalità, ma a loro volta sorvegliavano la comunità degli esuli, percepita comunque come un corpo se non proprio estraneo, quanto meno straniero, quindi non sottoposto all’autorità del partito comunista cecoslovacco ma direttamente sottoposto ai servizi sovietici.

Non mancarono i suicidi, e non furono casi isolati. La lontananza dalle famiglie, per chi già le aveva, la disillusione sul socialismo reale, il senso di isolamento. Ma furono davvero tutti suicidi? Per qualche caso si potrebbe pensare addirittura l’ombra di una mano esterna, cosa non particolarmente improbabile nel regime comunista cecoslovacco. Diversi membri della comunità italiana furono reclutati dalla polizia segreta cecoslovacca come informatori. Comunisti italiani che spiavano comunisti italiani, in nome degli ideali marxisti-leninisti.

Dalla Cecoslovacchia i fuoriusciti rientrarono in varie riprese e alcuni non sono mai tornati. La prima amnistia per i fatti di sangue del dopoguerra fu del 1959; per ripagare l’appoggio del Pci alla propria elezione Saragat graziò il pluriomicida Moranino. Ma per le situazioni più gravi – il capo della Volante rossa  Giulio Paggio, Natale Burato, Paolo Finardi – ci volle l’elezione di un presidente della repubblica ex-partigiano, Sandro Pertini, e l’intercessione presso di lui di Arrigo Boldrini Bülow, presidente nazionale dell’Anpi, per ottenere la grazia nel 1978. Un vero schiaffo alla giustizia.

Nel frattempo l’Anpi, sempre meno associazione partigiana, anche per ragioni anagrafiche, e sempre più associazione di estrema sinistra, prende posizione su tutto. Dal referendum sulle riforma costituzionali di Renzi, alle politiche sull’immigrazione, su CasaPound, sulle case concesse ai rom, sul Salone del libro di Torino: insomma cose su cui un’associazione reducistica non si comprende perché debba parlare. Riesce difficile immaginarsi l’Associazione Alpini che sbraiti su chi possa o non possa fare un comizio o quella dei Granatieri di Sardegna che manifesti per boicottare un libro sgradito… Un’associazione politica, oramai formata in massima parte di gente che è nata dopo la guerra e che si basa sui valori dell’antifascismo, insomma.

Come scrive uno di loro,

Un fatto del tutto normale derivante dalla scelta che le partigiane e i partigiani fecero nel Congresso di Chianciano del 2006 quando, consci della loro inesorabile scomparsa, decisero di aprire le porte dell’Associazione anche ai non combattenti per non far disperdere l’immenso patrimonio di valori e principi fondativi della Resistenza[1].

Ma che continua, malgrado gli atteggiamenti negazionisti sulle foibe e l’esodo (le foibe sono un’invenzione dei fascisti, secondo l’Anpi di RovigoSarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storicaTipo la vergognosa fandonia della foiba di Basovizza) culminati nello scandaloso congresso di fantastoria a Parma, e sui crimini postbellici (indimenticabile l’affermazione dell’Anpi di Savona sulla tredicenne Giuseppina Ghersi, stuprata, seviziata ed ammazzata dai partigiani comunisti, che se lo sarebbe meritatoGiuseppina Ghersi – secondo Samuele Rago, presidente provinciale dell’Anpi –, al di là dell’età, era una fascista. Eravamo alla fine di una guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili. Era una ragazzina, ma rappresenta quella parte là), alle celebrazioni poi fortunanatamente evitate per l’indignazione dell’opinione pubblica, del fondatore delle Brigate Rosse- gruppo terrorista cui, escludendo sequestri, ferimenti etc si devono 86 morti ammazzati in nome, sempre, della rivoluzione comunista– Renato Curcio da parte dell’Anpi di Foggia- con la scusa della consegna di una pergamena (o forse era una targa) in memoria di un omonimo zio partigiano- continua, dicevamo, a presentarsi e a venir presentata come l’Associazione dei partigiani, e non, come s’è visto, una tra le quattro associazioni partigiane (dal 2018 si è aggiunta l’Associazione nazionale partigiani cristiani…) per di più l’unica a rifarsi al passato stalinista delle formazioni comuniste.

Ed è l’unica ad assumere atteggiamenti antagonisti anche rispetto alle istituzioni, come accaduto il 25 aprile a Viterbo, dove l’intervento del presidente locale Anpi Mezzetti è stato caratterizzato da attacchi pretestuosi quanto ingiustificati alle nostre Forze Armate ed alle missioni all’estero, al punto che i militari presenti, con il generale Paolo Riccò, Medaglia di Bronzo al Valor Militare per i combattimenti di Check Point Pasta a Mogadiscio, sono stati costretti ad abbandonare il luogo delle celebrazioni. Un atteggiamento inaccettabile anche alla luce dei finanziamenti di cui, attraverso proprio il Ministero della Difesa, l’Anpi gode annualmente. Il capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Difesa in Senato, Isabella Rauti,

L’importo dei contributi per l’esercizio finanziario 2019 continua a penalizzare quegli organismi di Arma e di categoria cui è stato attribuito un ridicolo aumento di soli 10mila euro, rispetto allo stanziamento del 2018. Quindi, mentre le associazioni combattentistiche e partigiane ricevono un importo di un milione di euro, quelle d’Arma, di categoria e di specialità soltanto 702mila 918 euro (a fronte 693mila 610 euro stanziati nel 2018).

Dopo il mio intervento in Commissione ho votato contro l’atto del governo che rappresenta una “presa in giro!” Non siamo contrari al finanziamento di questi organismi, peraltro soggetti per legge alla vigilanza del ministero della Difesa, ma stigmatizziamo e condanniamo che si continua a perpetuare un criterio ingiusto di distribuzione.

E questo in considerazione soprattutto di associazioni, come l’Anpi, che piuttosto che svolgere il loro ruolo di memoria storica si impegnano in attività politiche storica quando non addirittura contestano l’impegno delle nostre Forze Armate nelle missioni internazionali, come accaduto ad esempio, a Viterbo il 25 aprile scorso in occasione delle celebrazioni per la giornata della Liberazione.

Quello di intercedere a favore di assassini, purchè comunisti, è un vizio che l’Anpi non sembra aver perso neppure in seguito: ci riferiamo all’assassinio, in pretto stile gappista, del commissario Luigi Calabresi per il quale sono stati condannati in via definitiva Sofri, Pietrostefani e Bombressi, il quale ricevette la grazia da Giorgio Napolitano il 31 ottobre 2008. Condanna passata in giudicato, e per la quale il Bompressi è e rimane il killer che ha ammazzato Calabresi: non uno dei partecipanti, ma l’esecutore materiale. E qui entra in ballo l’Anpi di Massa, la città del killer.

Ne La Grande Bugia  Giampaolo Pansa riassume quanto avvenuto:

Dunque, Bompressi era ormai un graziato. Ma era pur sempre l’assassino di Calabresi: così attestavano le sentenze di più corti di giustizia italiane. Ma queste sentenze non dovevano valere nulla per l’Anpi di Massa. Che pensò, nientemeno, di festeggiare il graziato (…) lo testimoniano i dispacci di due agenzie. E soprattutto le cronache pubblicate l’ 8 giugno 2006 dal ‘Tirreno’ di Livorno e dall’edizione di Massa della ‘Nazione’ . La prima scritta da Maurizio Centini e la seconda da Marzio Pelù. Sentiamo che cosa raccontano. La festa per Bompressi si svolse nel pomeriggio di martedì 6 giugno 2006. Nella sede dell’Anpi di Massa, in piazza Mercurio, durante una riunione della segreteria. Le cronache spiegano che Bompressi non è soltanto iscritto all’Anpi massese, ma fa parte di quella segreteria. Doppia festa, dunque: per un graziato e per un membro di quel club di ex partigiani. Un membro molto attivo che, mentre stava alla detenzione domiciliare, su richiesta dell’Anpi aveva ottenuto il permesso di lavorare per dieci ore al giorno nella sede di Massa (…) a sistemare l’archivio storico. Secondo le cronache della festa, il presidente dell’Anpi massese, Ermenegildo Della Bianchina, novantennedetto ‘Gildo’, spiegò: ‘Ovidio è bravo per queste cose, preciso e scrupoloso. Infatti sta venendo fuori un grande ed esauriente archivio storico.

Della Bianchina poi aggiunse:

La grazia a Bompressi conclude in modo positivo una vicenda che sembrava non dovesse mai aver fine. La grazia è un risultato che l’Anpi può annoverare a buon diritto anche dovuto, in parte, alla propria azione in questi anni.

Della Bianchina ricordò che l’interessamento dell’Anpi di Massa per la sorte di Bompressi era nato quando a presiedere l’associazione era Pietro Del Giudice, già comandante dei Patrioti Apuani. Fu lui, citiamo il discorso di Gildo,

Che si adoperò in ogni senso, con autorità istituzionali, giudiziarie e politiche, spendendo in maniera totale la propria autorità morale, nella convinzione dell’assoluta bontà dell’uomo Bompressi. Un uomo che, per le sue qualità e per le sue attività di solidarietà sociale, doveva essere considerato un patrimonio della nostra comunità. E ciò al di là dell’esito della complessa vicenda giudiziaria nella quale era coinvolto’.

La festa si concluse con un abbraccio al compagno Ovidio, al canto di Sventola la bandiera rossa. ‘T’amo con tutto il cuore…‘ intonò Gildo, visibilmente commosso (così il Tirreno). E la Nazione scrive: Tutti i presenti l’hanno seguito nel canto e nell’abbraccio.

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