Cosa lascia in eredità Joseph Ratzinger alla Chiesa, ai fedeli e al mondo? Oltre la sua testimonianza, la sua rinuncia e il suo spessore di studioso, quale impronta, quali tracce lascia il suo passaggio terreno, il suo pontificato e la sua elaborazione dottrinaria? Un’eredità difficile ma necessaria che qualcuno dovrà inverare nell’azione.
Facile liquidarlo, come ha fatto qualcuno, come “l’ultimo conservatore”, se non addirittura etichettarlo come Papa nostalgico del Medioevo, della Controriforma e della Civiltà cristiana; più banale tentare al contrario di elogiarlo come un innovatore, nonostante il suo pensiero, partendo proprio dalle sue dimissioni, enfatizzando i suoi dialoghi e le sue aperture. In entrambi i casi si fa corrispondere Benedetto XVI a due cliché piuttosto stantii, comunque riduttivi e prefabbricati. Ratzinger non fu una variante moderata di Monsignor Lefevbre, il vescovo ribelle e tradizionalista; e tantomeno fu un progressista implicito sotto i paramenti del conservatore.
Qual è allora il tratto originale di Joseph Ratzinger, cosa lo distingue dalla Chiesa del Concilio Vaticano II, dove lo spirito della modernità sostituì lo Spirito Santo; e cosa viceversa lo distingue dai conservatori e tradizionalisti che sognano di tornare al glorioso passato, alla Chiesa del Sillabo e allo spirito del Concilio di Trento? Per dirla in estrema sintesi: Ratzinger cercò la tradizione dopo la modernità, la fede dopo l’ateismo, il sacro dopo la secolarizzazione. Ovvero l’eredità che lascia è in una missione: oltrepassare il Concilio Vaticano II, senza tornare indietro; affrontare la crisi spirituale di oggi, anziché condannarla; riaffermare la tradizione senza immaginarsi di arretrare allo status quo ante. Per ritrovare la fede, il sacro e la tradizione non bisogna retrocedere ma oltrepassare la linea e scavare più fondo. Uso di proposito due espressioni, oltrepassare e scavare a fondo, che divisero in un memorabile dialogo due grandi pensatori tedeschi al di fuori della tradizione cristiana: lo scrittore Ernst Junger e il filosofo Martin Heidegger. In un dialogo intitolato Oltre la linea, uscito in Italia da Adelphi, Junger figurò arditamente di oltrepassare la linea del nichilismo, come si attraversa la linea del fronte; Heidegger invece esortò a scavare più a fondo sotto la linea, nel terreno inaridito, fino a rintracciare l’humus fertile, “l’essenza non nichilistica del nichilismo”. Traduco con più diretto riferimento a Ratzinger e alla sua lezione cattolica e cristiana: la scristianizzazione della nostra epoca va oltrepassata, senza vagheggiare ritorni al passato; e insieme va scavato a fondo il suo solco, fino a ritrovare la matrice cristiana della scristianizzazione. Se Dio è il fondamento della realtà, solo tornando alla realtà e approfondendo le sue origini sarà possibile ritrovare Dio. Ma per rintracciarlo bisogna partire dalla sua perdita. Compito immane, eroico, che fa tremare le tempie ai filosofi e ai teologi; figurarsi per chi guida la Chiesa e deve commutarlo in azione pastorale. Papa Benedetto XVI restò alla fine schiacciato dall’impresa che eccedeva non solo dalle sue forze ma anche dalle condizioni dell’epoca e della Chiesa. Da qui l’epilogo tragico del pontificato con la sua rinuncia e il suo ritrarsi monastico nei pensieri e nelle preghiere. Il suo fu un pensiero troppo forte per spalle troppo deboli; alla fine prevalsero i poteri forti muniti di pensiero debole.
L’eredità di Ratzinger non è quella di un reazionario, e forse nemmeno di un conservatore nel senso corrente dell’espressione: ma di un teologo della Tradizione. Rettamente intesa la tradizione, è un fiume e non una roccia, fluisce e non si pietrifica, non è immobilità ma trasmissione, implica l’idea stessa di rinnovamento, anzi di renovatio; è fedeltà creatrice, direbbe Augusto del Noce, citando Gabriel Marcel.
La tradizione non è granitica staticità ma è divenire nell’essere: la vita muta ma c’è qualcosa al suo fondo che permane, e che ne garantisce il senso, il destino, l’identità. Ratzinger non si limitò a condannare l’ateismo, a criticare il fanatismo islamico, a deplorare il cinismo nichilista dell’epoca; ma provò a dialogare, a confrontarsi, a riconoscere la fecondità dell’inquietudine negli atei e a rispettare le altre confessioni, religioni e tradizioni. Ratzinger non fu un neocons, non fu il cappellano militare dell’Occidente in guerra contro l’Islam, non fu la versione papale di Oriana Fallaci, e non fu un Papa delle Crociate, al di là di quel che si pensò di lui dopo il famoso discorso di Ratisbona. Ratzinger lascia in eredità il suo realismo consapevole del suo tempo, delle forze in campo e dell’impossibilità di tornare indietro; certo fu un intellettuale, meno incline a trovare soluzioni pratiche, meno propenso all’azione risolutiva o anche solo testimoniale. I suoi eredi dovranno continuare nel suo solco ma con più vigore ed efficacia nell’agire. Ratzinger cercava confronti con gli atei, non compromessi; volere capire e farsi capire, non voleva compiacere lo spirito del tempo. E voleva congiungere fides et ratio. Al di là dei motivi che poi lo portarono a dimettersi, Ratzinger sposò una linea incomprensibile ai più, troppo impervia e rigorosa, che nulla concedeva ai gesti teatrali, alle facili scorciatoie e agli slogan denagogici. Ma necessaria per salvare la chiesa e la cristianità: da lui si dovrà ripartire se non si vuole sparire o ridursi a una semplice onlus umanitaria. Ratzinger testimoniò la fede senza mai rinunciare alla ragione. Entrò nel mistero a occhi aperti.
Marcello Veneziani (Panorama n.3)