La strage di Parigi è il modello di integrazione degli immigrati in Francia, le differenze con gli Usa. La letteratura profetica: il film “The Prestige” e “Il campo dei santi” di Jean Raspail. De Gaulle e l’Algeria. Una analisi per comprendere le ragioni del fallimento di un approccio utopista al governo dei flussi di stranieri nel paese transalpino
Il massacro della redazione di Charlie Hebdo è l’ennesima testimonianza del fallimento del modello di integrazione francese, che ha contribuito a creare una guerra civile a bassa intensità. Certo, la stragrande maggioranza dei milioni di immigrati africani e nordafricani (non esistono cifre ufficiali, ma sarebbero circa il 10 per cento della popolazione) sono cittadini esemplari che rispettano la legge, e ci mancherebbe. Ma se si mettono a confronto due casi compatibili per proporzione e dimensioni, cioè quello francese e quello americano, la Francia è nei guai. E non da oggi. Negli Stati Uniti, l’Islam è la seconda religione del Paese, ma i musulmani americani non sparano nelle redazioni di giornali a loro sgraditi e, soprattutto, non chiedono orari riservati alle donne nelle piscine pubbliche, cibo halal nelle mense scolastiche, diritto di portare il velo a scuola eccetera. Perché sanno che non otterrebbero niente.
In Francia, tutto questo è all’ordine del giorno.
Negli Usa, quando entri nel Paese e prendi la cittadinanza, giuri davanti alla Costituzione e sotto la bandiera. Basta così. Poi, se sgarri davanti alla legge, sono affari tuoi. Gli americani fanno “profiling”, cioè registrano di che religione, provenienza e razza (razza!) sei. In Francia no, non è lecito. Negli Usa si conosce la composizione razziale (razziale!) di ogni città. In Francia no (cioè, la conoscono solo i prefetti). E allora perché negli Usa persone di culture diversissime e spesso antagoniste riescono a vivere tutto sommato senza grossi conflitti, mentre nella civilissima Francia succedono disastri del genere?
E non è inedito: la rivolta delle banlieues; le mura degli HLM ricoperte di scritte inneggianti a Bin Laden; le zone di “non diritto” (come il tristemente famoso “93”, cioè la Seine-Saint-Denis), dove la polizia non entra o entra con molta cautela, come in zona occupata; la diffusa sensazione di vivere a fianco di un “Paese parallelo”, non solo estraneo alla République, bensì addirittura ostile (i fischi allo Stade de France contro la nazionale di calcio francese che affrontava l’Algeria, davanti al primo ministro Jospin).
Tutto ciò è stato previsto, come sempre, dalla letteratura. Christopher Priest, autore di “The Prestige”, da cui fu tratto un film con David Bowie, scrisse nel 1972 “Fugue for a Darkening Island”, in cui descriveva un’Inghilterra in guerra civile, a causa dell’arrivo di milioni di immigrati africani, i quali si armavano per difendersi. Jean Raspail ha scritto nel 1973 “Le Camp des Saints” (tradotto in Italia nel 1998), in cui racconta della morte della Francia dopo un’immigrazione di massa di indiani. Raspail ripubblica il libro nel 2011 (ottava edizione) e discute con il suo avvocato dei possibili reati contenuti nel testo. Sarebbero stati 87 (87!) se le leggi “politically correct” introdotte da allora fossero state retroattive. Un album di fumetti di pochi anni fa, “Guerres Civiles”, racconta in tre volumi una Francia in guerra civile, politica e etnica. L’autore è libanese, e dice di vedere nella Francia attuale i semi del massacro che ha visto nel suo Paese negli anni Settanta. L’ultimo libro di Michel Houellebecq, “Soumission”, che racconta di una Francia caduta sotto un islam “soft” è uscito il sette gennaio, lo stesso giorno del macello a Charlie Hebdo.
Il punto è qui: in Francia è stata cercata e favorita un’immigrazione di braccia dall’Africa, per volontà dell’industria, con l’assenso dei politici, senza la capacità di immaginare il conflitto culturale che ciò avrebbe innescato. Si è detto: “abbiamo integrato gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i polacchi, perché non i nordafricani”? E perché no? Purtroppo non ha funzionato. Perché gli industriali e i politici, nella loro ansia di profitto e modernizzazione, non avevano gli strumenti culturali per capire e interpretare un simile fenomeno. Oggi, ce lo ricordano i fratelli Kouachi.
Il generale de Gaulle, ora adorato dall’estrema destra e dall’estrema sinistra – di cui fu il peggior nemico – per le sue posture antiamericane e nazionaliste, lasciò entrare in Francia la prima immigrazione algerina, nonostante fosse – come si direbbe oggi – islamofobo (“questi qui non sono e non saranno mai francesi, con i loro cammelli e i loro burnous”). Quando un ministro di Pompidou, il successore di de Gaulle, gli disse che l’immigrazione massiccia era un pericolo, il presidente rispose “lo vuole il patronato”. Giscard d’Estaing concluderà con il “ricongiungimento familiare”, mai più messo in causa dai successivi governi, di destra o di sinistra. Semplicemente, l’industria francese ha chiesto braccia a buon mercato, poco importa da dove provenissero, e le ha ottenute (non per niente il partito comunista francese era ferocemente contrario all’immigrazione fino agli anni ’80, in difesa dei salari degli operai). In teoria, la politica dovrebbe orientare la vita economica del Paese in funzione dell’interesse nazionale. Ma non lo ha fatto. E se domani i francesi si troveranno Marine Le Pen all’Eliseo, sarà la coda di una partitura scritta negli anni Sessanta.