Da adolescente, ero un anticomunista furente; già al termine del liceo, tuttavia, avevo compreso che il vero nemico dei principi che istintivamente seguivo era il Partito Radicale. Il duro impatto con il primo impiego – una media azienda metalmeccanica – mi convinse che non avevano tutti i torti gli operai e tanti lavoratori a votare PCI. Nello stesso periodo usciva – pubblicato da un piccolo editore, i grandi erano tutti schierati con il marxismo all’apice – Il suicidio della rivoluzione di Augusto Del Noce (1978), filosofo immensamente superiore al sopravvalutato Norberto Bobbio. La tesi fondamentale era il ripiegamento nell’individualismo e nell’edonismo del comunismo occidentale. La profezia era la progressiva trasformazione del PCI nel partito radicale di massa, dimentico dei lavoratori e dei ceti deboli, impegnato nelle battaglie sui “diritti “postborghesi. Del Noce, per uno scherzo del destino, morì un paio di mesi dopo il crollo del muro di Berlino, sconfitta storica del comunismo reale.
La parabola si è conclusa il 26 febbraio 2023 con l’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD, erede spurio della tradizione comunista, ibridata con i resti del cattolicesimo politico. Il PD diventa un OGM, organismo geneticamente modificato, forse il Partito Disumano. Adesso è l’erede legittimo, dopo un lungo, tortuoso percorso politico, del radicalismo di Pannella e Bonino, liberisti e libertari, protagonisti di una lunga stagione che ha condotto alla dissoluzione della famiglia, dell’etica detta tradizionale, e, più tardi, alla vittoria di pratiche come l’utero in affitto, il matrimonio omosessuale, le teorie di genere, più di recente la banalizzazione dell’eutanasia (“morte assistita”) e la riconfigurazione dell’aborto – già neutralizzato nel sintagma “interruzione volontaria di gravidanza” e nell’acronimo burocratico IVG – non come possibilità, ma diritto universale.
Nella Schlein paiono riunite tutte le negatività, tutta la decadenza di una civilizzazione al capolinea. Il suo programma è una completa enciclopedia della dissoluzione, innestata sul tronco del globalismo terminale di Davos e del filantropocapitalismo. Vuole l’introduzione dello ius soli, ossia fare a pezzi con un timbro il concetto di nazionalità a favore di quello di cittadinanza; riproporre il decreto Zan per punire ogni obiezione alle teorie gender, alla fluidità sessuale, facendo del futuro comune un gay pride obbligato privo di opposizione. Non manca la legalizzazione della cannabis, cioè la normalizzazione delle dipendenze da sostanze tossiche, dietro la speciosa distinzione tra droghe leggere e pesanti. La ciliegina è la riproposizione di un antifascismo grottesco in assenza di fascismo. Tutti i salmi finiscono in gloria.
In economia, obbedienza, cieca, pronta assoluta ai diktat di Davos, dal Grande Reset all’Agenda 2030, passando per le fumisterie green e, molto concretamente, per l’aumento delle tasse sulla casa. D’altronde, se non dobbiamo avere nulla ed essere felici, meglio portarsi avanti. Nessuna obiezione al modo di produzione capitalistico nella forma globalista, nessuna centralità per il lavoro. Difendere operai, commessi di centri commerciali (forse li chiama dealer, fa più cool) precari in bicicletta consegnatari di cibo spazzatura, titolari di contratti capestro malpagati, disoccupati e mai occupati, non interessa più. Meglio coccolare i tic neoborghesi dei quartieri ricchi, promuovere la disintegrazione e l’insicurezza, l’immigrazione di massa, svalutare il lavoro. Il partito della Schlein, se il corpaccione piagato Dem la seguirà, preferisce l’Italia assistita del reddito di cittadinanza, il non lavoro, vellica generazioni di Peter Pan che non vogliono crescere. Qualcuno pagherà, e abbiamo il sospetto che debbano essere i soliti, gli stupidi che si danno da fare, scherniti e tartassati.
Anche sul piano meramente estetico, rappresenta tutto quello che non ci piace. Non per la scarsa avvenenza, che non è una colpa, ma per l’insopportabile immagine di falsa trascuratezza, di giovanilismo con zainetto da liceo di periferia, il retrogusto di finti rivoluzionari figli di papà odiati da Pier Paolo Pasolini, persino per il nome Elly, diminutivo americanizzante di Elena. Riunirà gioiosamente un po’ di centri sociali, riporterà alla casa del padre i grillini alla Rousseau, tutti “buon selvaggio” rovinato dalla società e reddito di cittadinanza. Entusiasmerà le professoresse figlie e nipoti ritardatarie del Sessantotto, manderà in solluchero i nulla facenti e nulla pensanti, il “quinto Stato”, gli spostati di ogni età, i forzati dell’anarchismo parolaio. Piacerà alla spenta generazione Erasmus con il trolley in mano, turisti della vita, al variegato mondo dello sballo e indubbiamente al dipartimento arte, musica e spettacolo.
Manderà in visibilio chi aveva riposto nel cassetto la bandiera arcobaleno e i cittadini del mondo. In America li chiamano nowhere, quelli che non si sentono di nessun luogo e di nessuna comunità, gli apolidi dell’anima. Sarà l’eroina di chi ha perso le radici e l’identità. Tutti costoro hanno ragione di gioire: vince una di loro. La Schlein ama le “ragazze” – e passi – ha in tasca tre passaporti (Svizzera, Usa, Italia), proprio come gli operai, i lavoratori e le persone comuni. Ramiro De Maeztu affermava che solo i ricchi possono permettersi di non avere una patria. Amano l’uguaglianza con tutto il cuore, ma da lontano, con esclusione del portafogli.
Non risulta aver mai lavorato, a meno di considerare tale la partecipazione volontaria alle campagne elettorali di Obama. Del resto, è cittadina americana. E svizzera, piccolo paese amato dai banchieri e dai ricchi. Nei cantoni rossocrociati non ci sono operai disperati, come in Sardegna in cima a una ciminiera per salvare una fabbrica, unica speranza di lavoro, dignità, futuro. Meglio partecipare a una manifestazione antifascista organizzata per contrastare “lo squadrismo”, con il pretesto di una scazzottata tra studenti a Firenze, in cui peraltro ad attaccare briga furono i beniamini di Elly.
La Schlein è figlia di un ricco americano di origine ebraica, docente della Johns Hopkins University, un ateneo di élite, lo stesso, guarda le coincidenze, che ha organizzato nel 2019 il noto Evento 21, la simulazione della pandemia pagata da Bill Gates. Italiana è la madre, ex senatrice socialista. La parabola “proletaria” della famiglia Schlein è completata da una sorella addetta d’ambasciata. Una donna e una famiglia ricca di relazioni: è forte il sospetto che il suo personaggio sia una costruzione mediatica imposta dall’alto, l’oligarchia dei padroni del mondo. La sovraesposizione c’era da mesi e il povero Bonaccini è stato quasi ignorato per settimane dalla comunicazione progressista, gli opinion maker di quelli che il filosofo marxista Costanzo Preve chiamava “ceto semicolto”. Gli stessi iscritti del PD – tra i quali non mancano le persone serie, avremmo voluto scrivere normali – avevano votato per la Schlein solo al 35 per cento.
L’unico lato positivo della sua ascesa è che ora la contrapposizione è più evidente, visibile, scolpita nel volto. La domanda è: dov’è la sinistra? Dove sono i militanti che – sia pure in nome di un’ideologia fallimentare – hanno lavorato per migliorare la condizione di tanta gente? L’errore è giudicare con criteri obsoleti, che limitano la comprensione della realtà e richiudono il pensiero in schemi che non corrispondono al presente.
Sinistra e destra, con tutte le possibili varianti, sono etichette, ma l’uomo è un animale sociale e quindi politico. Non può essere l’uno senza l’altro. Il prezzo del pane è politica, l’istruzione è politica, perfino il sesso è stato politicizzato. La destra, in base alle vecchie chiavi di lettura, sarebbe il gruppo favorevole alla riduzione dello Stato e delle tasse; la sinistra la cultura contraria al mercato. A livello morale, la destra sarebbero i conservatori, la sinistra i progressisti. A livello nazionale, a destra i patrioti, a sinistra gli internazionalisti che non credono nelle bandiere nazionali, anche se non smettono di esibire nuove identità create in laboratorio.
La globalizzazione ha infranto le barriere culturali, politiche, economiche; richiede un nuovo approccio per rispondere alle sfide che produce. La sinistra e la destra di sistema sono in gran parte indistinguibili. Convergono nell’essenziale. I socialdemocratici e perfino i comunisti di ieri erano infinitamente più “conservatori” di coloro che oggi usano i loro simboli e linguaggi. I globalisti di ogni tendenza condividono il medesimo orizzonte. Le contrapposizioni sono altre, e oltrepassano ormai anche lo schema alto-basso, centro-periferia, inclusi-esclusi. Il pensatore peruviano Miklos Lukacs suggerisce, di fronte al nuovo mondo transumanista verso il quale ci dirigiamo – la sfida finale – che il nuovo terreno di scontro è sul versante biologico, ossia sui fondamenti della vita. Biopotere – nel senso di Foucault, potere sulla vita e sulla mente umana, contro umanesimo. Chi è contro la deriva transumana è bioconservatore, indipendentemente dalle preferenze economiche. I favorevoli sono bioprogressisti. Il transumanesimo spinge un’agenda basata sulla fusione tra sistemi biologici (l’uomo), tecnologici e digitali, per imporre la quale ha bisogno di cancellare tutte le vecchie culture e identità. Deve disarticolare le comunità e le istituzioni umane – religioni, famiglie, Stati, identità professionali, nazionali, sessuali e intime – per far accettare una condizione diversa da quella umana. Obbliga perciò a un soffocante relativismo morale e culturale; i concetti di vita, matrimonio, famiglia, addirittura essere umano devono essere ridefiniti per essere più facilmente mercificati. Ecco perché movimenti come il “gender”, l’immigrazionismo, le dipendenze, hanno così tanto potere di lobby: collaborano all’accettazione di fenomeni come il multiculturalismo, che fa perdere all’individuo il suo centro di identità e lo sottomette all’impero del mercato e della tecnica, spacciata a prescindere per progresso.
L’attuale lotta per l’espansione dei diritti individuali non è altro che un paziente lavoro per modificare la natura umana. Per Lukacs il transumanesimo prefigura l’ideologia globalista del prossimo futuro: una dottrina antiumana tesa all’ ibridazione dell’uomo con gli apparati artificiali. A tal fine promuove un ottimismo tecnocratico che esorta a cancellare ogni traccia della natura per riconfigurare l’intera condizione umana. Probabilmente senza esserne del tutto consapevole, Elly Schlein rappresenta tutto questo, nascosto dietro il libertarismo radicale gradito alle oligarchie che lo finanziano. Trascina le culture politiche che alimentano il PD su una china scivolosa, le modifica geneticamente. Tutti coloro che hanno creduto di costruire il paradiso in terra hanno finito per creare l’inferno. Il paesaggio culturale che rappresenta è un gaio, indifferente nichilismo di matrice tecnocratica, che ha in comune con la sinistra di sempre l’ansia costruttivista, che Del Noce chiamava perfettismo o virtuismo. Con la destra classica condivide la preferenza per il forte, che costringe a uniformarsi a processi di mutamento antropologico decisi dagli architetti della vita altrui.
Da oggi, in Italia tutte le tendenze dissolutrici dell’occidente terminale sono riassunte e ricongiunte in una persona fisica scelta dall’alto – nessuno può credere alla spontaneità dell’operazione politico-mediatica di cui è stata protagonista – per portare avanti un’agenda che ci appare contraria non solo agli interessi del nostro popolo, ma alla ragione naturale. Carl Schmitt insegnò che la specifica distinzione politica alla quale ricondurre le azioni e i moventi politici è la dicotomia tra amico e nemico. Nemica è l’agenda globalista antiumana, non Elly Schlein personalmente. Tuttavia, occorre attrezzarsi per una battaglia che oltrepassa la dimensione politica, diventando metapolitica e biopolitica, visione complessiva della vita, dell’uomo, del suo ruolo nel mondo.