Che ne è della democrazia nel nascente anno 2022? Il regime sanitario in cui viviamo ha spostato la sovranità sulla scienza, sulla medicina, sui poteri costituiti e sulle governance, indebolendo ulteriormente la sovranità popolare e la democrazia, già da tempo svuotate, vigilate e limitate da poteri tecnocratici, finanziari e sovranazionali, e dalle emergenze sanitarie, economiche, sociali. Cosa resta allora della democrazia? Il problema non riguarda solo i luoghi e gli ambiti della decisione, ma tocca gli spazi di partecipazione e dissenso, i diritti delle minoranze e le differenze d’opinione e non solo. La democrazia è in crisi, in pericolo o solo sospesa; comunque è fortemente sorvegliata e imbrigliata. La crescita dell’astensionismo è un’ulteriore conferma della democrazia svuotata: se perdi fiducia nell’effetto del voto, se ritieni che ci siano obblighi a cui ogni governo dovrà comunque ubbidire, e dunque il tuo voto non cambia le cose, sei poco motivato a votare. La democrazia muore pure d’anoressia.
Non c’è dubbio che l’ondata pandemica ha ridisegnato la mappa dei poteri nelle democrazie: in fondo, Trump negli Stati Uniti fu battuto dal covid prima che da Biden e dai presunti brogli elettorali. Il fronte sovranista in Europa si è scisso e frantumato nell’impatto con l’emergenza sanitaria e col relativo piano di ricostruzione dopo il disastro economico. In tutto il mondo i populisti hanno perso terreno e fascino da quando l’emergenza sanitaria ha ristretto i margini di dissenso e gli argini di agibilità politica: se prima la metà delle popolazioni era tentata dalla scorciatoia dei populismi variamente definiti e collocati, oggi il dissenso si è radicalizzato in una piccola minoranza populista che contesta il green pass e le strategie vaccinali e sanitarie; mentre una parte di populisti è rifluita su posizioni “realiste”, ha come stemperato e sospeso le ostilità davanti all’emergenza sanitaria ed economica che ne è derivata. In realtà non è andata in crisi solo la democrazia, ma più vastamente la politica. C’è stato un travaso di antipolitica dai populisti ai vigilanti tecnosanitari, eurocrati, virologi e apparati di controllo.
Il caso italiano è esemplare: il passaggio del premierato dal populista camaleontico Giuseppe Conte all’eurocrate della finanza Mario Draghi, con una maggioranza larga ed eterogenea, mostra perfettamente la parabola da un’antipolitica all’altra, dal grillismo al draghismo. Dall’antipolitica di piazza all’antipolitica di Palazzo.
Si è ristretta la democrazia al punto che non riusciamo a vedere un governo oltre Draghi e un Quirinale oltre Mattarella: è il trionfo dell’esistente, del vigente, il desiderio di fermarsi al punto in cui siamo o al più di avere continuatori, cloni, dei predetti; senza mai fuoruscire da quel contesto.
Non è solo in gioco l’idea di alternativa che dovrebbe costituire il sottofondo di ogni democrazia, ma anche la più modesta idea di alternanza. Chiunque vada al governo deve seguire strettamente i percorsi e le procedure segnate, senza mai deviare: è l’Europa che traccia il solco e dà le direttive, a cui attenersi scrupolosamente. Il range in cui muoversi è assai ristretto, quasi inesistente. Cosa è successo? Quel che a livello di politica sanitaria sono i protocolli: non la cura ad personam o affidata all’abilità del medico, alle sue capacità inventive, alle sue conoscenze e alle sue esperienze; nulla che sia legato alle specifiche condizioni del paziente. Ma un protocollo che vale per tutti, a cui attenersi, senza sgarrare. La stessa cosa succede ora in politica: chi verrà dovrà comportarsi come Mattarella, seguire la via tracciata da Draghi, osservare le direttive europee. Di conseguenza, la percezione più diffusa, che produce sconforto e disaffezione politica ed elettorale, è che chiunque vinca non potrà sottrarsi a quegli imperativi. Vinca pure la destra o il centro-destra dovrà seguire il protocollo. Fine dell’alternanza, oltre che dell’alternativa, fine della democrazia e della libertà. Omogeneità, conformità. I partiti funzionano ormai come i vaccini; si può pure avere un richiamo diverso rispetto ai precedenti inoculati, ma nella stessa linea. Ancor prima della legittima, sacrosanta domanda sulle classi dirigenti dei partiti d’opposizione, sulla loro qualità e affidabilità, c’è questo test preliminare che li mette fuori gioco o fuori dal loro messaggio politico: il test di conformità alle linee indicate. L’elettore sa che dopo aver tuonato all’opposizione, poi una volta al governo dovrà adeguarsi per farsi accettare e per galleggiare. Nessuno ha spalle così forti da reggere l’impatto ostile…
Utile al riguardo è il numero monografico della rivista Il Pensiero storico a cura di Danilo Breschi sul tema Democrazia: così vicina, così lontana con i contributi di tanti studiosi tra cui Bedeschi, Cacciari, Cofrancesco, de Benoist, Galli (e chi scrive, l’intervista sulla democrazia è stata pubblicata sul sito).
Non siamo mai stati fanatici della democrazia, non abbiamo mai creduto al primato della quantità e all’uno vale uno. Sappiamo che non esistono governi del popolo ma solo governi dei pochi: una buona democrazia è un governo di pochi nell’interesse di molti, una cattiva democrazia è un governo di pochi nell’interesse di pochi. Non c’è democrazia senza élite dirigente, senza aristocrazia e senza orizzonte comunitario. Ma una democrazia senza vera alternanza e possibili alternative, senza circolazione delle élite, senza competizione tra programmi politici e sociali diversi, senza trasparenza e sovranità popolare e nazionale, non è una democrazia. Se l’ideale è una democrazia decisionista e comunitaria, ci siamo avviati sulla strada opposta, verso un’oligarchia irrevocabile e immunitaria.
Marcello Veneziani, Panorama (n.2)