Milano – Va bene che le province le hanno appena abolite, o meglio sostituite di nome e di fatto con altre realtà spesso più vaste e confuse; va bene che la gestione dei territori non risponde più ai vecchi perimetri ma si scompone e ricompone in nuove scatole cinesi zeppe di enti, accordi, consorzi, distretti, sindaci, partiti, clientele e interessi.
Eppure, nella babele che tutto trascina e tutto confonde, è bene tenere d’occhio su un pezzo del Sud-Est siciliano, quel manto di terra preziosa che da Ragusa arriva a sfiorare Siracusa e il cui confine non sempre coincide con le mappe amministrative.
Perchè il confine se lo dà da solo il territorio con il suo paesaggio, la sua gente, con le caratteristiche e differenze che ciascuno può sempre e comunque toccare con le proprie mani.
Qui, in questa isola felice scelta dal Commissario Montalbano per raccontare le sue avventure, ci ritrovi carrubi secolari tra merli perfetti di muretti a secco, dove le pietre strappate ai terreni da coltivare formano panchine, abbeveratoi, masserie, obili e ogni altro manufatto di utilità contadina.
Ci ritrovi una campagna ordinata, pulita, curata, che non si incontra in nessun altro luogo di Sicilia; una produttività agro-alimentare che non ha nulla da invidiare alle aree d’eccellenza in Italia con un Pil di tutto rispetto; una industriosità silenziosa, operosa, coraggiosa senza fronzoli e pennacchi, una attitudine alla correttezza che è diligenza concreta senza cartellini dell’antimafia; una società sobria ma rigorosa nella propria rivendicazione della propria identità storico-culturale ma anche agricola.
E strade pulite che rispetto all’isola pare la Svizzera, e spiagge fruibili e attrezzate che nascondono case forse anche abusive.
E una banca “propria” a supporto del territorio.
E poi la cultura, con un impegno intellettuale e artistico che prescinde dal turismo e non vuole proprio trasformarsi in souvenir, perchè il turismo è turismo e quindi servizi, marketing, comunicazione (Montalbano docet) ma la cultura è “l’identità di casa mia”, identità privata e pubblica, antica e attuale e per questo dinamica e produttiva ma sempre orgogliosa e quindi attenta alla tutela e alla memoria.
Non c’è odore di truffa nell’offerta che il territorio fa di sè, non c’è arrembaggio nè accattonaggio commerciale; non ci pensano nemmeno, i ragusani, ad arrabattare la stagione svendendo quote di identità per racimolare la pagnotta; anzi: se è pagnotta, il più delle volte il grano è “russello”, antica specie siciliana ancora in produzione per tradizione e volontà, che si produce così perchè così è sempre stato, turista o non turista, in estate come in inverno; l’attività continua a prescindere e il prezzo, onesto, è sempre lo stesso.

E se si tratta di cose importanti -qui (come altrove) alcuni beni valgono così tanto da essere “patrimonio dell’umanità- i ragusani si fanno più seri, vivono il patrimonio Unesco con passione e spesso se la ridono del circo folcloristico e farlocco che altri hanno montato poco lontano da qui.
E mentre si valorizza la tradizione ci si apre all’innovazione, alle infrastrutture, al mercato internazionale: i resort, il golf, i ristoranti stellati, l’arte contemporanea, i brand di lusso, start-up, sperimentazioni e creatività, scambi con Malta e con il mondo, energie alternative, i porti, l’aeroporto: è un brulicare, il Ragusano.
Senza nulla togliere a ciò che sopravvive e che con tanta fatica si distingue nella desolazione economica delle altre province, per salire un po’ più su in qualche classifica e poi trovarne riscontro nella dimensione reale, non servirebbero scoop da programma elettorale, botte di genio o mirabolanti finzioni: basterebbe che tutta la Sicilia fosse Ragusa.

Costanza Messina (da Il Foglio)

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