di Mario Consoli – L’Uomo Libero

Le commemorazioni del 25 aprile – La valutazione storica – La valutazione militare – Le rappresaglie – Il ruolo dei comunisti – Le valutazioni politiche – Il Giudizio morale – La realtà istituzionale e l’esigenza della piena sovranità.

In occasione dello scorso 25 aprile si è assistito, ancora una volta, alla pantomima messa in scena dai soliti figuranti – diversi come persone, ma assolutamente identici nei ruoli ricoperti – che hanno celebrato questa ricorrenza tutti gli anni – sessantaquattro! – dal dopoguerra ad oggi.

Tutto si è sempre ridotto ad una – sostanzialmente generica – glorificazione della Resistenza, cioè della cosiddetta “guerra di liberazione”, presentata come summa salvifica di tutta la storia e la politica d’Italia.

In questi riti commemorativi il ruolo dei sacerdoti è ricoperto dalle associazioni partigiane e dai partiti di sinistra, e non manca mai chi tenta di coprire il ruolo di “conciliatore”. La posizione di questi “generosi” è quella, sfruttando la sempre maggior lontananza degli avvenimenti, di chi è disposto a tendere una mano a quei “poveracci” che hanno sì fatto la scelta “sbagliata”, che hanno sì combattuto al fianco dei cattivi per antonomasia – i tedeschi -, che sì non meriterebbero nulla, ma in fondo, bisogna riconoscerlo, potevano essere in “buona fede” e sono morti senza rendersi conto di quali “tremendi” errori erano stati corresponsabili.

I “riconciliatori” sono stati molti, nel corso degli anni, ma tutti si sono affrettati a compiere repentine e strategiche ritirate al primo stormir di fronde provocato dai “sacerdoti” della Resistenza. Tanto per ribadire, ogni volta, che i buoni e i generosi in democrazia esistono, ma la Verità, in fin dei conti, è una e a questa tutti debbono inchinarsi.

In quest’ultima tornata celebrativa del 25 aprile il tentativo – anche questa volta andato subito abortito – di onorare i caduti di entrambe le parti della guerra civile è stato fatto da Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, a Onna, in Abruzzo, ha affermato: “Sono convinto che siano maturi i tempi perché la festa della Liberazione possa diventare la festa della Libertà, e possa togliere a questa ricorrenza il carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria le ha dato e che ancora divide piuttosto di unire”.

Ma poi, dopo il consueto borbottio resistenziale, sono giunte puntuali le rassicurazioni che nessuna equiparazione sarebbe stata fatta, di nessun tipo; sulla questione nessun disegno di legge sarebbe stato presentato né caldeggiato.

Quei morti – quelli dalla “parte sbagliata” – potevano dunque continuare a vagare nell’oscuro spazio dell’oblio.

E’ arrivata infine, in occasione dell’anniversario dell’8 settembre, col tono della sentenza definitiva, la parola del presidente della Repubblica, Napolitano, con l’abituale sicumera dei comunisti, ha affermato: “La Resistenza fu guerra e guerra di popolo. Ci ha ridato dignità. I suoi sono i valori fondamentali”. Come dire: l’Italia è una Repubblica fondata su un patto – la Costituzione – che è stato redatto “traducendo” i valori fondamentali della Resistenza; tutto ciò che si discosta da tali valori, dunque, non può avere diritto di cittadinanza.

Nessuno, a questo punto, ha insistito nel dibattito. Non lo ha fatto il presidente-pacificatore – evidentemente convinto che il gioco non valesse la candela – che ha preferito riservare le polemiche col presidente-resistente per altri argomenti. Nessun intervento c’è poi stato da parte di quella destra ex-neofascista tutta preoccupata di non turbare il clima istituzionale, tornando su questioni dalle quali ha da tempo preso le distanze.

D’altronde – è stato il pensiero condiviso da tutta la classe politica – son passati sessantaquattro anni; il grosso dei testimoni è deceduto, i parenti prossimi dei caduti e delle vittime anche, quelli di seconda generazione non hanno vissuto, non hanno conosciuto, non hanno sofferto, non nutrono, salvo rarissime eccezioni, sentimenti revanscisti.

Non c’è nessuno in Parlamento che s’impegni per l’indipendenza dell’Italia – e dell’Europa – e si ribelli allo status di colonia americana cui siamo ridotti, nonostante i decenni che ci separano dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anzi, rimarcare il mito della Resistenza come valore fondamentale della nostra Repubblica, come “lotta di liberazione” che ha ridato dignità al popolo italiano, inevitabilmente rivaluta anche il mito – che è poi quello che ha reale valenza di attualità – della guerra degli “alleati” come guerra di liberazione e non di occupazione.

Torna in mente l’arguta ironia di Giorgio Gaber quando, nel suo monologo L’America, diceva:

“A noi ci hanno insegnato tutto gli americani! Se non c’erano gli americani a quest’ora noi…eravamo europei!”

Ecco dunque il presidente del Consiglio non perdere occasione per ribadire il “debito di gratitudine” per i soldati americani che “versarono il loro sangue nella campagna d’Italia. Senza di loro, il sacrificio dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano”.

Un debito di gratitudine condiviso da tutti gli schieramenti politici e da tutte le istituzioni e che si sostanzia in una completa sudditanza ai disegni del mundialismo, ai condizionamenti culturali e al dominio monetario, politico e militare degli Stati Uniti d’America.

Il problema dei caduti nella guerra civile e dei valori della Resistenza non è dunque una questione del passato, un argomento buono solo per commemorazioni, ma è un tema politico di grande attualità. Un tema di cui è doveroso occuparsi senza complessi o pregiudizi.

Innanzitutto occorre sgombrare il campo dall’equivoco della “buona fede” dei combattenti dell’una e dell’altra parte. E’ un argomento capzioso, usato con doppi fini, secondo la convenienza del momento. Un argomento che non può aggiungere nulla al dibattito sulla Resistenza e sui suoi “valori” o sull’esperienza della Repubblica Sociale Italiana e dei suoi combattenti.

Noi possiamo attribuire, nell’analisi storica, ai singoli fenomeni sociali e politici, valenze positive o negative, ma evidentemente questo non può implicare un automatico giudizio per chi può aver aderito a quello schieramento con uno spirito idealmente rispettabile e disinteressato. Viceversa, il rispetto doveroso per qualsiasi combattente motivato da ideali “puliti”, di per sé non è sufficiente a ipotecare positivamente il giudizio sul fenomeno nel suo insieme. Si può onorare il sacrificio di un partigiano, ma criticare la Resistenza, così come un giudizio negativo sulla RSI non può essere considerato titolo sufficiente a criminalizzare o condannare all’oblio le decine di migliaia di volontari che caddero combattendo a fianco dei tedeschi e le decine di migliaia di fascisti che furono assassinati dopo il 25 aprile del 1945.

Nel commentare il film di Giuseppe Tornatore, Baarìa, un siciliano che aderì al Partito Comunista negli anni Cinquanta ha dichiarato candidamente: “Noi volevamo ribellarci al potere mafioso. Vicino alla mafia c’era la DC, quindi andammo a iscriverci al PCI. Ma non avevamo mai letto Marx; non sapevamo nemmeno chi fosse”.

In una recente ricerca storica sulla prima metà dell’800, che si riferiva al centro Italia, mi sono stupito nel riscontrare un numero di adesioni alla Massoneria molto più alto di quello accertabile in altre regioni del Nord e del Sud; numero che nei decenni successivi diminuiva vistosamente.

Nell’approfondire la ricerca ho trovato la spiegazione del fenomeno. Nel centro Italia dominava lo Stato della Chiesa, esercitando un potere molto più assoluto, dispotico e oscurantista di quello degli altri stati d’Italia. O subivi il Papa, cardinali e vescovi e tutte le loro angherie, o cercavi di collegarti con altri “ribelli”, e in quegli anni, sulla piazza, non si trovava altro che la Massoneria. E c’era, per questo motivo, chi vi aderiva anche senza sapere di Logge e di Officine, di Grand’Oriente, d’Inghilterra o di Francia, salvo distaccar visi, una volta caduto il potere temporale, dando vita a nuove correnti politiche.

E’ chiaro che nessun disegno eversivo e alcuna responsabilità storica può essere attribuita a quel bracciante siciliano o a quel ribelle antipapalino. Certo non a loro possono essere imputati i milioni di vittime dei quali il comunismo si è macchiato nel mondo, né i disastri sociali, politici ed economici provocati dai regimi marxisti. Né i disegni sovvertitori, contro le nazioni ed i popoli, a favore di quelle forze che nel corso della loro storia sono approdate al dominio mondialista, messi in atto dai complotti massonici.

Si può certamente trattare di individualità indocili, in ottima fede, che, rischiando la vita, sono, a prescindere dallo schieramento scelto, degne di ogni rispetto. E di queste individualità ve ne sono state indubbiamente anche all’interno del movimento partigiano, e – come vedremo, in ben diverso numero – tra i combattenti della Repubblica Sociale.

Rientra del resto nell’antica tradizione dei popoli civili rispettare anche il nemico che si è battuto con valore ed è caduto in battaglia.

Quello dei militanti in “buona fede” non è dunque un tema che si può sollevare a intermittenza, secondo la convenienza del momento. Il rispetto per loro è dovuto per un atto di civiltà e non può essere oggetto di trattative o opportunistiche concessioni. Quando invece si insiste su questo tema vuol dire che si vuole nascondere qualcosa e che lo si utilizza come “specchietto” per le allodole per non affrontare il nocciolo della questione.

Poi, oltre ai “puri”, in ogni schieramento, ci sono sempre stati anche i profittatori, e spesso anche i banditi. Gente che arraffa quando c’è da arraffare, e scappa quando vede la mala parata. E poi c’è la gran massa di quelli che attendono fino all’ultimo, osservano il vento che tira, cambiano bandiera e si accodano a chi vince.

Nel luglio del 1958, al porto di Genova, sbarcò dal transatlantico Cristoforo Colombo, proveniente da New York, il poeta Ezra Pound, dopo essere stato internato per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeth, per “motivi politici”, dai buoni e democratici americani.

Pound trovò ad accoglierlo una schiera di giornalisti, tutti ormai rigorosamente antifascisti. Il poeta, provocatoriamente, dedicò loro un saluto romano e sorrise, riconoscendo molti volti che aveva visto prima della fine della guerra nelle redazioni dei giornali fascisti. Si avvicinò a uno di loro in particolare, un piemontese che nel frattempo era diventato la “voce dei partigiani” e che ancora oggi siamo abituati a vedere nel ruolo di sentinella della Resistenza, uno che nel 1942 aveva accusato gli ebrei di avere scatenato la seconda guerra mondiale: “Lei ha meritato la fama di veggente”, gli disse Pound. Il giornalista in questione su La Provincia Granda – Sentinella d’Italia, il 14 agosto 1942 aveva scritto: “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. () A quale ariano, fascista e non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei?”.

Quello dei voltagabbana è sempre stato un mestiere praticato da molti. Questi individui però difficilmente li possiamo trovare negli elenchi dei caduti e degli eroi; trovano quasi sempre il modo di cavarsela.

I ragazzi della Repubblica Sociale cantavano:

“Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera. L’amore con i fascisti non conviene; meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera”

Al tempo della RSI certamente nella bilancia fascista il piatto dei rischi pesava molto di più di quello dei vantaggi. Ciò nonostante, il numero dei volontari che seguirono Mussolini al Nord fu sostanzialmente costante fino alla fine, mentre quello dei partigiani aumentava man mano si avvicinava la vittoria degli “alleati”: dagli 8-10.000 del 1943 si giunge agli 80-90.000 della primavera del 1945. Poi, con l’arrivo degli anglo-americani le piazze si riempirono di fazzoletti rossi: erano tutti diventati partigiani. Ma questo è un fatto che accade sempre, e non può avere alcuno spessore né storico, né politico.

L’Italia invece, durante il regime fascista, andava bene, le prospettive apparivano ottime e, conseguentemente, di profittatori ne circolavano.

Chi ha studiato quel periodo conosce quanta insofferenza trapelasse tra i giovani fascisti, quelli “veri”, quelli che venivano dai GUF, che si erano formati nei Littoriali ed erano approdati a esperienze come la Scuola di Mistica Fascista di Niccolò Giani.

Guido Pallotta aveva sottotitolato il suo Vent’anni, Giornale di bonifica integrale, e non si riferiva certo né a paludi, né a terreni incolti. Da quelle colonne partirono violente battaglie contro i profittatori del regime, quelli che chiamavano i “cumulisti” di cariche che, invece di servire lo Stato e perseguire gli interessi del popolo, inseguivano “quattro paghe per il lesso”.

Ma questi “puri”, coerentemente, una volta scoppiata la guerra, andarono a servire la Patria in armi e la gran parte di loro morì eroicamente, risparmiandosi il tragico scenario della sconfitta. Pallotta cadrà a Sidi el Barrani, in Egitto, sulle dune di Alam el Nibeiwa, nello scontro con i carri armati britannici il 9 dicembre del 1940. Berto Ricci, il fondatore de l’Universale, morì il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula in Cirenaica. Niccolò Giani cadde combattendo sul fronte greco-albanese, verso la Punta Nord del Mali Shendeli, a quota 1.700 metri, il 14 marzo 1941.

* * *

Fatto salvo dunque il pieno rispetto per tutti quei partigiani che sono caduti combattendo, convinti di averlo fatto per valori di giustizia, riscatto e libertà, è opportuno occuparci senza pregiudizi della Resistenza italiana e verificare se sia stata o no guerra, guerra di popolo e, soprattutto, se abbia rappresentato una realtà storica talmente trainante da trasformare una sconfitta bellica e un’occupazione militare – che si è prolungata in sessantaquattro anni di asservimento politico, culturale ed economico – in “guerra di liberazione”.

E’ necessario affrontare l’argomento sotto ogni angolazione: storica, militare, politica e morale.

La valutazione storica

La Resistenza non sarebbe mai riuscita a prendere il potere se non fossero arrivate le truppe angloamericane e se la guerra non fosse stata persa da Italia e Germania. Prima del 25 aprile 1945 nessuna vera e propria insurrezione ebbe luogo.

Nelle città e nelle zone d’importanza militare, e quindi presidiate, i partigiani si manifestarono solamente attraverso azioni terroristiche, uccisioni e sabotaggi. Inizialmente di disturbo che potevano infastidire le autorità della RSI e i comandi tedeschi, ma certamente non influire sullo svolgimento degli eventi bellici.

Le popolazioni, ben lontane dall’offrirsi ad avventure insurrezionali e già sufficientemente provate dalle ristrettezze, soprattutto alimentari, imposte dalla situazione generale e dal clima di terrore creato dai bombardamenti aerei anglo-americani, vivevano con giustificata angoscia le conseguenze degli attentati partigiani. Era ben noto a tutti che ad ogni azione di quel genere sarebbero seguite rappresaglie ed era ormai consolidata la certezza che nessun terrorista si sarebbe mai presentato alle autorità per rispondere del proprio operato ed evitare sanguinose ripercussioni sulla popolazione. E’ emblematico il caso di Via Rasella – e della conseguente rappresaglia delle Fosse Ardeatine – e, in senso opposto, quello del sacrificio del carabiniere Salvo d’Acquisto, autoaccusatosi, innocente, di un attentato compiuto a Torre di Polidoro, una località tra Fiumicino e Ladispoli, per scongiurare la fucilazione di 22 ostaggi che i tedeschi si preparavano ad eseguire per rappresaglia.

Le cosiddette “repubbliche partigiane”, tanto glorificate dalla storiografia ufficiale, sorsero nell’estate del 1944 , in zone dove mancavano o erano scarsi gli insediamenti militari tedeschi e della Repubblica Sociale, poco abitate, senza importanza strategica, facilmente controllabili perché territori prevalentemente montani e dotati di ridotta rete stradale.

Più che di “repubbliche” quindi, tranne qualche piccola, effimera eccezione, sarebbe più corretto parlare di zone non controllate dalle truppe italo-tedesche. In ogni caso durarono poche settimane; sparirono all’arrivo dei primi reparti fascisti o tedeschi e non riuscirono mai a consolidarsi.

In Friuli i partigiano scorazzarono indisturbati in zone della Carnia e dell’alto bacino del Tagliamento, Tolmezzo escluso, dal luglio al settembre. Fu questa la regione dove con maggiore evidenza si manifestò lo scontro tra fazioni all’interno della Resistenza. La vicinanza con la Jugoslavia e le brigate di Tito alimentavano, nei partigiani comunisti, una tracotanza maggiore che nelle altre regioni d’Italia. Questa lotta non si esaurì nelle poche settimane di vita della “repubblica carnica”; continuò in un crescendo di sopraffazioni e di violenze, fino a sfociare nell’eccidio di Porzus.

Il 7 febbraio del 1945, presso le malghe di quel villaggio, i comunisti gappisti guidati da Mario Toffanin, detto Giacca, decapitarono il vertice della Brigata Osoppo, uccidendone 17 elementi. La Osoppo raccoglieva i partigiani cattolici e laico-socialisti ed era accusata di osteggiare il predominio dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica controllati direttamente dal partito Comunista Italiano) e di non accettare la prospettiva – caldeggiata invece dai “rossi” – dell’annessione di Friuli e Venezia Giulia alla Jugoslavia.

Tra i partigiani massacrati in quell’occasione ci furono anche Guido Pasolini, fratello del più noto Pier Paolo, e Francesco De Gregori, detto Bolla, zio dell’omonimo cantautore.

In Veneto, nelle settimane estive, i “resistenti” si illusero di controllare l’altopiano del Cansiglio, un territorio quasi totalmente boscoso e disabitato, ma a settembre svanì ogni velleità e tutta la regione tornò sotto l’autorità della Repubblica Sociale, senza che si manifestasse alcun tentativo insurrezionale da parte dei cansigliesi.

In Lombardia ci fu un solo episodio sfociato in un periodo – ottobre-novembre – di controllo territoriale da parte dei ribelli, ed è quello di Varzi, Godiasco e della Bassa Valle Staffora, nei pressi di Voghera.

Sul sito internet dell’Associazione Nazionale Partigiani, sezione di Voghera, nel rievocare quell’episodio, si legge un involontario giudizio d’insieme di tutto il fenomeno delle “repubbliche partigiane”: “La liberazione di Varzi assume una rilevanza storica in quanto è uno dei pochi casi, negli avvenimenti della Resistenza, in cui una cittadina di fondo valle è conquistata dai partigiani a seguito di uno scontro aperto e non per abbandono da parte dei nazifascisti (come accade nella piemontese Alba, ad esempio)”.

In Emilia, nonostante nel dopoguerra proprio questa fosse la regione dove i partigiani spadroneggiarono più a lungo – quattro anni di incontrastata impunità – perpetrando assassinii e stragi, i tentativi insurrezionali furono pochi e di scarsissimo rilievo.

Sei settimane durarono le azioni nella valle del trebbia (repubblica di Bobbio), cinque nelle montagne di Modena e Reggio (repubblica di Montefiorino), e nella val d’Enza e val di Parma. Quattro settimane in val Ceno e in val Taro.

Nonostante dal 25 aprile 1945 l’Emilia abbia ricoperto il ruolo di regione “rossa” per antonomasia, fu proprio qui che i rapporti tra popolazione e partigiani risultarono ancor più problematici che altrove. Si legge in un rapporto del comandante partigiano Ferrarini della Brigata Garibaldi operante in val Ceno: “I sacrifici di lunghi mesi di montagna, la mancanza di una buona preparazione politica, l’eterogeneità delle forze, hanno reso un po’ acri i rapporti tra i garibaldini e la popolazione civile. La povertà dei mezzi dei nostri patrioti, la scarsa sensibilità politica dei montanari della zona, la loro paura per un eventuale rastrellamento non hanno permesso una cordiale convivenza e quindi la liberazione si è trasformata in una vera occupazione”.

In val Taro la situazione fu anche peggiore: i partigiani che avevano preso provvisoriamente il controllo del territorio non riuscirono nemmeno a formare un qualcosa che assomigliasse a una giunta. Il 13 luglio 1944 su La Nuova Italia, Giornale del territorio libero del Taro, si constata: “Elementi iscritti e militanti tra le file del Partito fascista repubblicano sono ancora nelle amministrazioni comunali della zona. Un provvedimento radicale, per evidenti ragioni di necessità pratica non è stato opportuno attuare”.

In Liguria la cosiddetta “repubblica di Imperia”, comprendente una decina di piccoli comuni dell’entroterra, durò da settembre all’inizio di ottobre.
Ma la regione che più d’ogni altra fu teatro di esperimenti di questo genere fu il Piemonte. Sette le zone interessate: l’alto Monferrato (un gruppo di paesi attorno a Nizza Monferrato – durata due mesi), l’alto Tortonese (dalla val Borbera alla val Curone – durata due mesi), le Langhe (la striscia che collega il Tanaro e il Bormida al nord-ovest di Mondovì – durata due mesi), la val Maira a la val Vairata (durata un mese e mezzo), le valli di Lanzo (durata poco più di due mesi), la Valsesia (da Romagnano fino ad Alagna – durata quattro settimane) e la val d’Ossola (durata cinque settimane).

Quella dell’Ossola è stata la più celebre tra le “repubbliche partigiane”. Si tratta di un territorio semplice da occupare e da difendere, fuori dalla mappa degli interessi strategici imposti dagli sviluppi bellici. Quando i partigiani decisero di passare all’azione, il territorio era in realtà difeso solo in pochi presidi militari (Piedimulera, Masera e Santa Maria Maggiore) con scarsi reparti territoriali austriaci e poche decine di militari della GNR e della Guardia di Finanza, e quando entrarono a Domodossola, il dieci settembre, le truppe fasciste e tedesche si erano già allontanate.

Quanto alla geografia della zona, se andate in Ossola, potrete osservare come il territorio abbia la forma di un grande catino con al centro Domodossola. Da lì si diramano, come in una tela di ragno, strade strette che finiscono contro le montagne della Valle Anzasca, del gruppo del Monte Rosa, della Valle Antrona, della Cairasca, del Devero e della Formazza.

Collegati con l’esterno ci sono solo il Passo del Sempione, la via delle Centovalli svizzere, la Cannobina e la strada di Mergozzo. Ancora oggi basta una piccola frana per bloccare queste carreggiate.

Un0unica apertura vera e propria collega l’Ossola ed è quella di Ornavasso, attraverso la quale si raggiunge Gravellona Toce e il Lago Maggiore. Fu facile ai partigiani dichiarare quel territorio “libero” e istituirvi anche un Governo provvisorio.

Ma le forze armate della RSI, più per principio che per motivazioni strategiche, decisero di intervenire.

Il 9 ottobre reparti di volontari si organizzarono ad Arona. Il 12 entrano in Ossola. Il 14 ottobre la Repubblica dell’Ossola è sparita. Partigiani e governo provvisorio scappano lungo la valle Antigorio, raggiungono la Formazza e di lì, attraverso il passo San Giacomo (un sentiero d’alta montagna utilizzato quasi solo dai contrabbandieri), riparano in Svizzera dove aspettano al sicuro la fine della guerra. Tra questi c’è anche il futuro presidente della Costituente, l’ebreo comunista Umberto Terracini che, già in territorio elvetico dall’agosto 1943, aveva raggiunto l’Ossola dove divenne, per quel fugace periodo di attività partigiana, segretario della Giunta di governo.

La storia delle cosiddette “repubbliche partigiane” è dunque molto istruttiva perché chiarisce, in modo inequivocabile, coma la Resistenza non abbia mai rappresentato una forza combattente capace di imporsi militarmente e di gestire un qualsiasi territorio, fino all’arrivo delle truppe anglo-americane. La durata di quelle “repubbliche” – queste sì repubblichine! – coincide esattamente con il tempo in cui le truppe italo-tedesche trascurarono di occupare quei territori.

Inoltre, per quei brevissimi periodi, i partigiani riscontrarono grosse difficoltà nel rapporto con le popolazioni, e questo è molto importante sottolinearlo, giacché è un fatto che stride violentemente col concetto di “liberazione” che fa da ritornello in tutta la storiografia e nelle celebrazioni resistenziali.

Quasi sempre alle azioni partigiane risponde una istintiva ostilità popolare – sono gli stessi storici della resistenza ad ammetterlo – legata soprattutto a due elementi: paura per le conseguenze dell’inasprimento della guerra, che ben sapevano non sarebbero mancate, e insofferenza per le immancabili razzie di beni alimentari – e non solo alimentari – che i partigiani facevano per sopperire alle proprie necessità. E già, perché, oltre al fatto di trovarsi d’improvviso in zone chiuse, dove ogni possibilità di approvvigionamento dall’esterno veniva preclusa, la popolazione doveva anche farsi carico del mantenimento delle bande che avevano preso il momentaneo controllo del territorio.

Dopo solo nove giorni dalla costituzione della “repubblica”, in Ossola i civili cominciarono ad avere fame. Riferisce sulla stampa svizzera – 29 settembre 1944 – il consigliere del Canton Ticino Guglielmo Canevascini: “Ho visitato l’Ossola liberata. La situazione alimentare è tragica. La popolazione civile della regione (60 mila persone, esclusi i militari) è ridotta alla fame. Nelle valli da quasi due settimane è cessata la distribuzione del pane. Nei centri industriali di Domodossola, Villadossola e Pieve Vergonte, le ultime riserve saranno esaurite domani. Non ci saranno più neppure patate, le cui razioni sono già state ridotte a 200 grammi; 500 grammi per gli operai. Mancano i vestiti per l’inverno. Si comincia a soffrire il freddo. Mancano i legumi, il riso, i grassi. Negli ospedali mancano il sapone e i medicinali. Manca tutto; si incontra ovunque, fra una nobile e dignitosa fierezza che è nel comportamento del popolo, lo squallore e la miseria. I bambini (da 10 a 12 mila) sono denutriti. Il latte è insufficiente; lo zucchero è totalmente assente (un esempio: Domodossola con 14 mila abitanti, dispone di soli 538 litri di latte al giorno)”.

Il prof. Massimo Legnani, docente di storia del XX secolo all’Università di Bologna, specializzatosi nella storia della Resistenza, ha affermato: “…l’atteggiamento della maggioranza della popolazione è molto circospetto, soprattutto per ragioni di carattere economico: le formazioni partigiane avevano ovviamente problemi di approvvigionamento è ciò presupponeva la spartizione delle limitate risorse esistenti…questa dialettica legata alle condizioni materiali spesso determinava climi psicologici che incidevano negativamente sui rapporti politici”.

Ed i problemi non si esaurivano solo al livello alimentare, ma riguardavano tutte quelle risorse di cui le bande “venute giù dalla montagna” certo non disponevano.

Emblematico ciò che avvenne nel Monferrato: per l’aspetto finanziario, la giunta della nuova “repubblica” decise di imporre nuove pesanti tasse a tutti i viticultori e, per risolvere la questione dei trasporti, requisì gli autocarri e le automobili delle aziende private. Per il carburante si provvide alla fabbricazione di alcool sequestrando, a questo scopo, le famose distillerie di Nizza e Canelli.

Parlare, a questo punto, di consenso e collaborazione da parte delle popolazioni, appare quanto meno avventato.
La Resistenza storicamente non fu una guerra, ma, tutt’al più, una guerriglia di disturbo che peraltro fu la causa di quelle rappresaglie oggi così ingigantite e pubblicizzate, operate dalle Forze Armate della RSI e, principalmente, dai reparti tedeschi.

La Resistenza dunque non solo non fu guerra, ma soprattutto non fu guerra di popolo. Non aggiunse nulla al determinarsi degli avvenimenti bellici e aggravò le condizioni di vita delle popolazioni.

Come sempre avviene, i vincitori, nel redigere la storiografia ufficiale, allargano, s’inventano, romanzano e l’immagine finale che giunge alla pubblica opinione, soprattutto a quelle generazioni che non hanno vissuto nulla di quegli avvenimenti, diventa tutt’altra cosa rispetto alla realtà dei fatti.

Nella colonna sonora delle rievocazioni resistenziali si ascoltano sempre le note di Bella ciao. Ebbene, molti storici affermano che nessun reparto partigiano cantò mai quella canzone. Le parole sarebbero state scritte nel 1948 in occasione di un congresso comunista tenutosi a Praga e furono abbinate alla musica di un canto ottocentesco delle mondine padane. C’è addirittura chi afferma che si tratta di una musica ancora più antica, di origine yiddish.

A Milano, nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile, lo studio fotografico Publifoto reclutò un gruppo di comparse, le dispose agli incroci delle strade e sui tetti, facendo loro imbracciare mitra e fucili, truccandoli cioè da partigiani, per immortalare, ad uso dei posteri, quegli scontri armati che in realtà non ci furono. Il titolare di Publifoto, Vincenzo Carrese, è presente in molti di questi scatti con faccia truce e mitra spianato. Si tratta di foto che hanno fatto il giro dei giornali e dei libri di storia: una di queste è stata usata – ancora nel 2000 – da Einaudi per la sovra copertina e il cofanetto del Dizionario della Resistenza.

Il cinema fu subito a disposizione delle nuove necessità propagandistiche. Il primo a mettersi in mostra fu Roberto Rossellini che sfornò tre film antifascisti di grande successo: Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero. Poi seguirono tutti gli altri, registi bravi e no, in una sequela di rappresentazioni che ancor oggi non si è conclusa e che si è anzi arricchita del nuovo mezzo di comunicazione, quello televisivo.

Rossellini, l’apripista dei film antifascisti – è opportuno ricordarlo -, grande amico di Vittorio Mussolini, iniziò la sua carriera alla fine degli anni Trenta, partecipando come sceneggiatore al film Luciano Serra pilota, vincitore, alla Mostra del cinema di Venezia del 1938, della Coppa Mussolini. Prima della fine della guerra, come regista, fece in tempo a realizzare una trilogia di film esaltanti i valori fascisti e dell’Italia in armi: La nave bianca, L’uomo della croce e Un pilota ritorna, la cui sceneggiatura era dello stesso figlio del Duce che si firmava con l’anagramma Tito Silvio Mursino.

La valutazione militare

Ci sono tre criteri di valutazione oggettivi per definire una forza combattente e un reparto militare. Occorre essere riconoscibili a distanza, inquadrati in un organico e conformarsi alle leggi ed agli usi di guerra.

I partigiani, a differenza dei combattenti della RSI, operavano in clandestinità, in borghese, imboscando le armi, usando falsi nomi – enfatizzati come nomi di battaglia -, erano pochi e si nascondevano, prevalentemente in montagna. Evitavano lo scontro aperto e si dedicavano soprattutto al sabotaggio e ad attentati terroristici.

L’attore Giorgio Albertazzi, volontario nella RSI, nel suo libro di memorie, Un perdente di successo, scrive: “Forse non dovrei dirlo – non sta bene! – ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti”.

Militarmente nessuno può dare dignità di esercito o di forza belligerante alla Resistenza o negarla ai combattenti della RSI. Questo giudizio è confortato da una sentenza del 26 aprile 1954 del Tribunale Supremo Militare Italiano che afferma: “Non può negarsi, alla stregua dell’articolo 40 che gli appartenenti alle Forze Armate della RSI abbiano conservato la qualità di belligeranti, né è possibile concepire che tali Forze avessero detta caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetti dei cobelligeranti italiani”.

“Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati ai militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo”.

“Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi suesposta. Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti. Anche (…) perché, comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti dell’avversario belligerante, alle leggi ed agli usi di guerra” (…) Infatti il n. 2 del detto articolo 4 (…) precisa che “sono prigionieri di guerra i membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agente fuori e all’interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano alle condizioni seguenti: a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b) avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare apertamente le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra”.

“I partigiani invece, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono”.

Il giudizio militare poi, non può esimersi da una, storicamente corretta, valutazione numerica dei due schieramenti.

Alla fine del 1943 i partigiani erano, in tutto il Nord Italia, poche migliaia. Le fonti di tendenza fascista riferiscono di 3-4.000 terroristi, le fonti resistenziali, più celebrative e “ottimistiche”, arrivano ad indicare il numero di 10.000.

Nel corso del 1944, soprattutto a partire dalla primavera, la consistenza del movimento partigiano arrivò a cifre maggiori. Mentre, infatti, si moltiplicavano le adesioni ai reparti della RSI, si verificava anche l’incremento di renitenti alla leva. Alcuni di questi decidevano di collegarsi con i membri della Resistenza, molti altri si nascosero, pensando solo a far salva la pelle, aspettando senza rischi il trascorrere degli avvenimenti. Le cantine e le soffitte si popolarono e furono mimetizzate grazie a porte nascoste, stratagemmi e “opportune” opere murarie, come oggi siamo abituati a vedere nei telegiornali, quando vengono scoperti i rifugi dei latitanti di mafia e camorra.

Nonostante non si trattasse di combattenti, il loro conteggio finì spesso ad ingrossare la cifra degli aderenti alla Resistenza. Si arriva così ad ipotizzare, nella primavera-estate del 1944, numeri che vanno dai 30.000 ai 70.000. Il capo partigiano Ferruccio Parri parla di 40.000; Luigi Longo, in un suo rapporto a Mosca, riferisce la cifra di 38-50.000 (dei quali dai 30 ai 40.000 i comunisti), Giorgio Bocca si spinge ad ipotizzare una consistenza di 50-70.000 partigiani.

A seguito della repressione operata dai reparti fascisti e tedeschi, nell’inverno 1944-45, quei numeri si ridimensioneranno drasticamente: c’è chi afferma addirittura che la Resistenza, in quel momento, poteva contare solo su 10.000 uomini. A determinare questo risultato contribuirono certamente i caduti negli scontri a fuoco e il numero dei prigionieri fatti dalle forze dell’Asse, ma anche la fuga di parecchie migliaia di loro all’estero. Dalla sola Ossola ripararono in Svizzera oltre 3.000 partigiani.

Ebbe anche il suo peso il Proclama Alexander del 13 novembre 1944. Il messaggio, trasmesso via radio dalla emittente Italia combatte, rivolto alle formazioni del Comitato di Liberazione Nazionale, ordinava di “cessare le operazioni organizzate su larga scala, di conservare le munizioni e i materiali, (…) di continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiare le intenzioni, gli spostamenti e comunicare tutto a chi di dovere”.

Gli “alleati” dunque, mentre si ripromettevano di utilizzare la Resistenza italiana per facilitare l’arrivo delle loro truppe al Nord, con azioni di sabotaggio e la conquista, all’ultimo momento, di posizioni chiave, nelle città, nelle fabbriche, negli snodi ferroviari, giudicavano militarmente inutili le attività partigiane dei mesi precedenti, tanto da ordinarne la sospensione e sollecitare esclusivamente un’attività di spionaggio.

Con l’avvicinarsi della fine, il numero dei resistenti tornò a crescere. I rischi erano diminuiti e il vento che tirava indicava chiaramente quale fosse il carro del vincitore sul quale conveniva saltare. Alla vigilia del 25 aprile 1945 si può parlare di una cifra di 90.000 unità.

Dalla parte della RSI i numeri sono ben diversi.

E inesatto affermare che dopo l’8 settembre la totalità dell’esercito italiano si dissolse. “Tutti a casa” non riguardò tutti. Anche se questo è un fatto subdolamente ignorato dalla storiografia ufficiale, di fronte al tradimento del Re e di Badoglio, nonostante Mussolini fosse ancora tenuto agli arresti in una località segreta, nonostante il Partito fascista sembrasse dissolto come neve al sole, non tutti abbandonarono le armi o voltarono le spalle all’alleato tedesco. Questa “rivolta alla resa” avvenne in modo massiccio nei reparti di stanza in Germania, in Francia, nel Baltico, ma rappresentò un fenomeno consistente anche in Italia. A La Spezia si costituì immediatamente un’unità di fanteria di marina che successivamente divenne la famosa Divisione “Decima” con i suoi battaglioni e i suoi mezzi d’assalto, comandata dalla medaglia d’oro Junio Valerio Borghese.

Rimasero in campo, nonostante tutto, anche reparti della Nembo e della Folgore. Centinaia di piloti da caccia, bombardieri e ricognitori, eliminati i simboli sabaudi dalle carlinghe degli aerei, continuarono a volare e combattere.

Quando fu costituita la Repubblica Sociale Italiana e fondato il nuovo esercito, già 80-90.000 soldati italiani erano in campo “per l’Onore d’Italia”, automobilitatisi a proseguire la guerra accanto alle truppe del Terzo Reich.

La leva volontaria – indetta subito dopo la costituzione del governo repubblicano presieduto da Mussolini, la fondazione del nuovo Partito fascista diretto da Pavolini e la formazione dell’esercito repubblicano sotto la guida del maresciallo Graziani – incontrò un’adesione massiccia, superiore ad ogni più ottimistica previsione.

La stragrande maggioranza di chi indossò le uniformi dei reparti delle Forze Armate della RSI era composta da volontari. Il numero totale di questi combattenti superò la cifra di 800.000. Senza comprendere quei fascisti che avevano scelto i reparti delle Waffen SS – che organizzavano i volontari provenienti da tutta Europa -, le forze di Polizia e la Guardia di Finanza.

L’esercito aveva 405.000 effettivi; la GNR (la Guardia Nazionale Repubblicana) 150.000; la Marina 26.000; la Decima Mas 25.000; l’Aviazione 79.000; le Brigate Nere (la struttura militare del PFR comandata da Pavolini) 110.000; la Legione autonoma Ettore Muti 3.500; il Servizio Ausiliario Femminile 5.500; le Fiamme Bianche (i volontari giovanissimi, dai 13 ai 17 anni) 5.000.

Nonostante per molti mesi si fosse diffusa la convinzione della ineluttabilità della sconfitta, nonostante il grande caos dei giorni finali – aprile 1945 -, le Forze Armate della RSI tennero fino alla fine. Abbracciando quella bandiera, i volontari avevano compiuto una scelta ideale e non dettata da interesse egoistico. Non erano in cerca di benemerenze, né speravano in futuri benefici, quei ragazzi erano lì per testimoniare l’idea di una rivoluzione nazionalpopolare, per tutelare l’onore della Patria, per adempiere al proprio dovere di italiani e di fascisti.

“Ce ne freghiamo! La signora morte
fa la civetta in mezzo alla battaglia,
si fa baciare solo dai soldati.
Forza ragazzi! Facciamole la corte,
diamole un bacio sotto la mitraglia,
lasciamo le altre donne agli imboscati”.

E 100.000 di loro trovarono la morte. Altri 400.000 finirono nei campi di concentramento e nelle carceri.

Le rappresaglie

Quello delle rappresaglie è un discorso che merita un particolare approfondimento e necessità di considerazioni storicamente oggettive. Innanzitutto perché nella storiografia propagandistica le rappresaglie sono state ingigantite e messe in primo piano, artatamente ignorandone o minimizzandone le cause scatenanti. Poi perché lo studio di queste tristi pagine consente di osservare nella giusta luce quella che fu la strategia messa in atto dai partigiani, soprattutto nella sua maggioritaria componente comunista.

Quando, l’8 settembre 1943, il re e Badoglio proclamano l’armistizio e il cambio di fronte, in Italia erano presenti numerosi reparti tedeschi, fino a quel momento come alleati. Era presumibile che i soldati del Reich, traditi sul campo, avrebbero mutato il loro atteggiamento nei confronti dell’Italia e degli italiani. Vittorio Emanuele e il governo del Sud, oltre a compromettere l’onore della nazione e macchiarsi d’infamia con il precipitoso abbandono di Roma e la fuga a Brindisi, si assunsero la grave responsabilità di lasciare le popolazioni in mano ad un esercito che legittimamente si sentiva tradito e non più sicuro sul nostro territorio.

A parte le considerazioni di ordine politico e ideale che si possono fare circa la Repubblica Sociale, va riconosciuto che, a fronte dell’atteggiamento scellerato della monarchia, la formazione al Centro-Nord di un governo fedele ai patti, con un esercito belligerante a fianco dei tedeschi, ha ricoperto anche un ruolo di mediazione e tutela verso la sicurezza e gli interessi della popolazione.

Di segno diametralmente opposto la strategia della Resistenza. L’obiettivo cui si puntava era la caduta del Fascismo e la candidatura dei partiti antifascisti a partecipare al governo che, a guerra finita, le forze vincitrici avrebbero imposto all’Italia; anche se il prezzo da pagare era rappresentato dall’aumento delle sofferenze e dei lutti per i cittadini.

C’erano antifascisti che, ascoltando il rombo dei bombardieri anglo-americani sopra le nostre città e gli schianti provocati dai grappoli di bombe, si fregavano le mani: “più distruzioni, più morti sotto i bombardamenti, maggiore diventa l’odio contro Mussolini che ha dichiarato la guerra, prima cadrà il Fascismo”.

Le tristemente note rappresaglie, prevalentemente eseguite dall’esercito tedesco, furono l’obiettivo di questa mentalità. La Resistenza, come abbiamo visto, non fu una forza belligerante, evitò puntualmente lo scontro aperto, ma si dedicò ad attività terroristiche, ad agguati proditori e sabotaggi indiscriminati.
Gli attentati furono il risultato di una pianificazione fatta dai partigiani, soprattutto dai GAP comunisti, finalizzata ad ottenere proprio una reazione da parte dei tedeschi, che quindi non si può considerare “effetto collaterale”, ma conseguenza voluta di un calcolo scellerato. Attraverso la sofferenza della popolazione per le fucilazioni eseguite per rappresaglia, i GAP intendevano diffondere l’odio contro i fascisti e tedeschi. Ed è qui che si dimostra quanto sia irreale la tanto sbandierata Resistenza come guerra di popolo.

Nei civili, infatti, certo gravemente colpiti da questi fatti, oltre ad aumentare l’insofferenza per le devastazioni prodotte dalla prosecuzione della guerra, cresceva anche l’indisponibilità a collaborare con i partigiani che apparivano chiaramente come i responsabili dell’ulteriore peggioramento della situazione.

Giorgio Bocca, in merito, è molto chiaro: “Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce”.

La scelta terroristica fu fatta fin dall’inizio.

Il giornalista fascista Enzo Erra, raccontando le circostanze del suo arruolamento come volontario, ricorda: “A chi vi parla, una di queste pedagogiche lezioni venne impartita per così dire all’istante, mentre stavo firmando il foglio di arruolamento nel cortile di una caserma romana della Milizia a Monte Mario, e vide rientrare con un morto e due feriti un plotone che si era appena formato, ed era uscito per l’addestramento, senz’armi, in maglietta, pantaloncini e scarpe da ginnastica. Era il 30 settembre 1943. Il caduto, quasi certamente il primo delle forze repubblicane, aveva 17 anni e si chiamava Salvatore Morelli. I suoi coetanei, che lo videro tornare senza vita, e che si stavano arruolando per combattere contro gli anglo-americani, appresero così che sarebbero stati coinvolti in una guerra civile. Tuttavia, a quella prima aggressione terroristica non seguirono ritorsioni, e nemmeno ve ne furono dopo altri agguati dello stesso tipo. Quando però i fascisti videro cadere – per citarne solo due tra i tanti – il federale di Ferrara Igino Ghisellini a novembre, e un mese dopo quello di Milano, Aldo Resega – anche loro finirono per reagire. Le loro ritorsioni, tuttavia, non si potevano nemmeno paragonare a quelle dei tedeschi, ben più violente e indiscriminate. Questo portò i GAP, pur senza trascurare gli obiettivi fascisti, a preferire quelli tedeschi, nella convinzione che lo sdegno e l’orrore si sarebbero riversati anche contro la RSI e contro chi ne portava le insegne”.

Tutti conoscono la tragica rappresaglia delle Fosse Ardeatine, ma pochi sono informati sui dettagli dell’attentato che scatenò la pesante risposta tedesca. Il 23 marzo 1944 una bomba, esplosa a Roma, in via Rasella, uccise 32 militari del battaglione Bozen, composto da altoatesini in servizio di leva nella polizia, e ne ferì 50, dei quali, nei giorni successivi, ne morirono 14. I soldati stavano tornando in caserma ed erano senza armi. Rimasero uccisi anche 5 passanti, tra cui un bambino, e 20 furono ricoverati con gravi lesioni.

Dalla Germania giunse l’ordine di rappresaglia – 10 italiani per ogni tedesco – se non fossero stati individuati gli autori della strage.

La radio trasmise ripetutamente appelli affinché gli attentatori si consegnassero per scongiurare l’esecuzione degli ostaggi, ma nessuno si presentò. Il giorno successivo fu eseguita la rappresaglia.

Molti conoscono – per le celebrazioni periodiche – la fucilazione di 15 antifascisti avvenuta a Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944. Quasi nessuno è invece al corrente dell’attentato di due giorni prima che fu all’origine della rappresaglia. Una bomba, collocata su un camion tedesco, era esplosa provocando la morte di cinque soldati tedeschi e 13 civili italiani, tra i quali una donna e tre bambini.

Il camion era carico di generi alimentari destinati alla popolazione. Tra i morti tedeschi c’era un maresciallo ben noto ai milanesi – che lo avevano soprannominato el Carlùn – perché ogni mattina distribuiva in quella zona latte per i bambini e viveri per gli indigenti, in quei tempi, molto numerosi.

A Marzabotto, la rappresaglia più drammatica – 770-780 morti che nella propaganda resistenziale sono diventati 1.830, 3.000, “quasi 5.000” e persino 8.000 – si arrivò dopo una sequela di attentati antitedeschi durata mesi. Il comando germanico si decise così – siamo nel settembre del 1944 – a effettuare un rastrellamento su vasta scala. L’operazione fu annunciata dall’affissione di manifesti in tutti i borghi del circondario.

Gli abitanti di Marzabotto, spaventati, avrebbero voluto scendere a valle e allontanarsi dalle località piene di quei partigiani verso i quali si sarebbe indirizzato il rastrellamento, ma i comunisti della Stella Rossa li dissuasero: stanno per arrivare gli americani; aspettate, siete più sicuri qui, se arriveranno i tedeschi vi difenderemo noi.

Il comando tedesco decise di inviare una pattuglia a parlamentare con i comandanti di Stella Rossa per arrivare a una tregua: voi sospendete ogni forma di terrorismo e di guerriglia, noi fermiamo il rastrellamento. Per tutta risposta i partigiani trucidarono i parlamentari nei pressi di Rioveggio.

I tedeschi a questo punto sono inferociti. Partono i reparti verso la zona di Marzabotto e il territorio viene ispezionato palmo a palmo. I partigiani scappano verso le montagne, lasciando, dopo averla inutilmente trattenuta, isolata e indifesa la popolazione civile.

E questi sono alcuni dei molti esempi che si potrebbero ricordare. Dietro le rappresaglie di quegli anni esiste un numero altissimo di agguati e sabotaggi il cui unico scopo – peraltro, come abbiamo visto, apertamente dichiarato – era quello di inasprire la situazione. Solo tra i tedeschi i morti per attentati furono circa 5.000. E poi c’erano gli italiani, i soldati della RSI e i civili che passavano per caso in quel posto e in quel momento.

Albertazzi ricorda: “Altri atti di guerra a Sestino: con un filo di acciaio teso sotto un ponte fecero sbandare un altro nostro autocarro, che fu attaccato da ogni parte: otto morti, tutti ritrovati con la M rossa (che la “Tagliamento” portava sulle mostrine) infilata negli occhi (la M era quella della firma di Mussolini, con la prima gamba, come si dice, più grande e staccata dalle altre due: un gioco da “ragazzi” infilarla nell’occhio e farlo schizzare fuori)”.

Nel novero degli orrori della Seconda Guerra Mondiale non ci si può certo fermare al ricordo delle rappresaglie tedesche, come la storiografia ufficiale vorrebbe. Furono queste, infatti, azioni militari eseguite su ogni fronte, da tutti gli eserciti, applicando rapporti numerici ben più feroci di quelli usati da italiani e tedeschi. I francesi usarono una proporzione di uno a ottanta, gli americani di uno a centodieci, i russi di uno a centoventi.

Ci furono anche le stragi senza nessuna diretta causa scatenante, cioè senza nessuna possibile giustificazione. Esempio indicativo può essere il massacro di Biscari. Il generale americano Patton, comandante della Settima Armata, prima dello sbarco nel sud della Sicilia, arringò ufficiali e soldati ordinando loro di non fare prigionieri, non fossa’ltro per non dovergli dare da mangiare.

Appena giunti nella zona dell’aeroporto di Biscari, Santo Pietro e Piano Stella – l’attuale Acate – tra Ragusa e Gela, gli americani applicarono gli ordini e lasciarono per terra e nei fossi, ai bordi delle strade, 81 italiani e 3 tedeschi; si trattava di inermi braccianti e di soldati che si erano già arresi e avevano gettato le armi. Alcuni di loro erano in borghese.

Il presidente Napolitano, sollecitato da un senatore del PDL che sull’argomento ha appena scritto un libro, ha ricevuto, alla fine di settembre, l’ultimo sopravvissuto di quel massacro. L’avvenimento è stato segnalato solo da qualche attimo di telegiornale e ignorato da quasi tutta la stampa. I morti per mano dei vincitori, evidentemente, non meritano di essere onorati e neppure ricordati. Quelli dei vincitori non sono mai “crimini di guerra”. Si è saputo addirittura che il nome di alcune di quelle vittime era stato inserito negli elenchi dei disertori.

E poi c’è la tremenda pagina dei bombardamenti terroristici contro le nostre città e le popolazioni inermi, che provocarono ovunque devastazione e morte. Ci limiteremo qui a ricordare alcuni episodi, scegliendoli a simbolo dei sistemi usati – ancora oggi – per “liberare” i popoli ed “esportare” la democrazia.

Alla mattina del 25 settembre 1944 due aerei inglesi bombardarono un quartiere di Intra, il Cassinone, provocando 11 morti e numerosi feriti. Successivamente i piloti si diressero verso il lago e si misero a mitragliare, di fronte a Baveno, il battello Genova adibito al trasporto passeggeri tra i paesi del Lago Maggiore. Molti i feriti e 34 i morti; tutti civili, in maggioranza donne e bambini.

Il giorno dopo gli aerei tornarono e ricominciarono il loro macabro tiro a segno. Questa volta se la presero col battello Milano in rotta da Laveno a Intra. Morirono 10 militari e un numero imprecisato di civili dei quali furono recuperati 17 corpi, mentre altri rimasero sul battello che si inabissava. Cinque anni fa una spedizione di sub ha individuato sul fondale del lago il relitto; dalle foto effettuate si vedono chiaramente numerosi resti umani.

Il 20 ottobre 1944 un gruppo di bombardieri B24 e B27 “alleati”, partito dall’aeroporto di Foggia, era diretto alla zona industriale tra Milano e Sesto San Giovanni. Alcuni di questi aerei arrivarono sull’obiettivo, dove sganciarono il loro carico distruttivo, colpendo gli stabilimenti della Breda, altri proseguirono sull’abitato di Gorla.

Il tempo era bello, la quota di volo era bassa, la visibilità ottima, mentre i bombardieri sganciavano 342 bombe da 500 libbre sulle case e sulla popolazione, I piloti non si persero nulla dello spettacolo. 703 morti, 481 feriti, 300stabili di abitazioni distrutti. Erano le 11,24. La scuola elementare Francesco Crispi, in piena attività, fu tra i primi edifici ad essere colpiti. Una strage terrificante: 174 scolari dai 6 ai 12 anni; 20 tra insegnanti e mamme corse per prendere i figli; 18 bambini – il più piccolo aveva 11 mesi, il più grande 5 anni – che erano assieme a quelle donne.

Nel Mediterraneo facevano rotta tra le zone di guerra e i porti italiani le navi della Flotta Bianca. Ventidue ospedali viaggianti gestiti dalla Croce Rossa della quale portavano in modo estremamente visibile il simbolo (croce rossa su fondo bianco) sia sulle fiancate che sui fumaioli.

Gli aerei inglesi si divertirono ad attaccare, mitragliare e silurare queste navi, contro ogni convenzione internazionale ed ogni comportamento umanitario e civile. Una di esse, la Po, il 14 marzo 1941, di fronte a Valona, fu affondata da un aerosilurante inglese. Pochi riuscirono a salvarsi gettandosi in mare e raggiungendo la costa a nuoto: tra loro la figlia di Mussolini, Edda che svolgeva sulla Po il servizio di crocerossina. Solo due navi di questa flotta, alla fine della guerra, rimasero indenni.

* * * *

La Seconda Guerra Mondiale si proiettò sull’Europa con un’ombra di morte e distruzione senza eguali. Le rappresaglie, indubbiamente, fanno parte di questo quadro, e la Resistenza ha la responsabilità incontestabile di avere voluto, con il proprio terrorismo, l’inasprimento della situazione con grave danno per le popolazioni civili.

Il ruolo dei comunisti

Nell’ambito della Resistenza convissero due componenti politiche: una più moderata – monarchici, cattolici, i radicali di Giustizia e Libertà e i socialisti delle Brigate Matteotti – e una rivoluzionaria, egemonizzata dal Partito comunista.

Tra le due componenti non regnò mai l’armonia, non solo per le differenti radici culturali e ideologiche, ma soprattutto per le scelte strategiche e gli obiettivi perseguiti. I moderati, coscienti della debolezza del movimento partigiano nel suo insieme e dello scarso seguito presso la pubblica opinione, spingevano verso scelte attendiste: la loro attività non poteva andare altre la preparazione del fiancheggiamento agli eserciti anglo-americani nel momento dell’offensiva finale.
Il Partito comunista invece era per la linea terroristica e, come abbiamo visto, tutta la storia della Resistenza è caratterizzata dalla spregiudicata azione dei GAP, Gruppi di Azione Patriottica, strutturati militarmente, alle dirette dipendenze del PCI. Gli altri venivano appena tollerati, tanto per dare una patinatura di “ampio schieramento antifascista” alla loro lotta. Comparse ininfluenti in una strategia tutta ispirata agli interessi comunisti. Giovanni Guareschi era solito chiamarli “l’esercito degli utili idioti”.

Gianpaolo Pansa, giornalista di sinistra, oggi indicato come “revisionista”, ma che iniziò le sue indagini proprio nell’ambito della resistenza, ha scritto: “E’ indubbio che senza il PCI non ci sarebbe stata nessuna guerra partigiana. E la Resistenza si sarebbe svelata un’impresa modesta. Ma con il PCI la guerra di liberazione è diventata anche una guerra rivoluzionaria, per la conquista del potere in Italia. E questo progetto eversivo ha autorizzato un succedersi di errori, di menzogne, di intrighi, di soprusi, di delitti e di misteri: tutta robaccia occultata da una storiografia succube degli interessi di quel partito”.

Quando poi il dissidio sulle scelte strategiche si manifestava con troppa evidenza, i GAP non andavano troppo per il sottile. Ne è testimonianza la strage di Porzus cui abbiamo accennato.

Praticamente tutta la Resistenza finì per essere dominata dai comunisti. Si agiva in Italia, ma si decideva a Mosca. I partigiani cantavano Fischia il vento sull’aria della canzone russa Katiuscia. E cantavano anche:

“Noi siamo la canaglia pezzente,
noi siam chi suda e lavora,
finiam di soffrire che è l’ora.
Ai soviet stringiamo la mano,
l’Italia farem comunista,
a morte il regime fascista,
insorgiamo, che giunta è la fin.
Evviva la Russia, evviva Stalin”.

Fino all’inizio del 1944 la posizione dell’U.R.S.S., e conseguentemente del PCI, fu nettamente ostile alla monarchia italiana e al suo governo. Nella notte tra il 4 e il 5 marzo Palmiro Togliatti – allora noto come “il compagno Ercoli” – incontra nella capitale sovietica Giuseppe Stalin. Cosa si siano detti appare chiaro dalle scelte che nelle settimane successive vengono rese pubbliche.

Il 14 marzo il governo Badoglio viene riconosciuto dall’Unione Sovietica. Togliatti era già partito alla volta dell’Italia del sud – 6 marzo – intraprendendo un viaggio lungo e difficoltoso. E’ costretto a raggiungere in aereo prima Baku in Azerbaigian, poi Teheran e di lì il Cairo. Quando arriva a Napoli, sono passate tre settimane. Viaggia con la nave da carico Ascania scortata dagli inglesi che avevano amichevolmente organizzato quest’ultima parte del viaggio.

L’arrivo, il 27 marzo, è funestato da una violenta eruzione del Vesuvio. Così lo ricorda: “Già da molte ore, anche prima di arrivare in vista delle coste, una enorme massa di fumo che si addensava sul mare per decine di chilometri annunciava l’Italia (…) Il volto della Patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico”.

Si presenta nella sede della federazione partenopea del PCI che è quasi notte e si fa riconoscere dai dirigenti comunisti ancora presenti a quell’ora. In seguito questi ricorderanno le cose che li avevano più colpiti nel primo incontro con il compagno Ercoli: il buffo maglione a strisce orizzontali e il suo modo di parlare, “l’inflessione piemontese e le cadenze del russo”.

Il primo aprile rende nota, in una conferenza stampa, la nuova linea del Partito, che passerà alla storia come la Svolta di Salerno. “Bomba Ercoli” la definì Nenni: “Occorre mettere fine ad una situazione – affermò Togliatti – che vede da una parte un governo con potere ma senza autorità; dall’altra un movimento popolare che ha autorità senza il potere”; occorre perciò “creare un nuovo governo che abbia la simpatia delle masse attraverso l’appoggio dei partiti antifascisti”.

Di qui la decisione di accettare Badoglio e di far entrare il PCI nel suo governo. Commentò Benedetto Croce: E’ certamente un abile colpo della Repubblica dei soviet vibrato agli anglo-americani, perché, sotto colore d’intensificare la guerra contro i tedeschi, introduce i comunisti nel governo, facendoli iniziatori di una nuova politica sopra e contro gli altri partiti, che si troveranno costretti a seguirli, senza che quelli provino il minimo imbarazzo”.

Con la Svolta di Salerno appaiono chiari due elementi destinati ad ipotecare la storia italiana per parecchi decenni. Il PCI agiva come cordone di trasmissione delle decisioni e degli interessi del Cremlino. Da Mosca arrivavano le linee politiche, gli ordini e i finanziamenti. Contemporaneamente, i comunisti si inserirono nella lotta per il potere occupando, senza perdere tempo, posizioni privilegiate rispetto agli altri partiti. Al Sud al governo, al Nord motore della Resistenza. Avevano “messo il cappello” sulla realtà politica del “dopo” ancor prima che finisse la guerra e nonostante risultasse già chiaro come l’Italia fosse destinata alla sfera di occupazione occidentale. Gli anglo-americani erano già nel sud dell’Italia e l’Armata Rossa non poteva certo raggiungere il nord.

Questa situazione aiuta a comprendere il fatto che, nonostante l’Italia nella spartizione di Yalta fosse assegnata alla sfera USA, il PCI – il più forte partito comunista dell’occidente – da noi continuasse a ipotecare politica e cultura. Cominciò a farlo con la Costituente, col referendum istituzionale, coi primi governi della Repubblica, poi con le amministrazioni locali e i sindacati, sempre occupando posizioni chiave nel mondo della cultura, dello spettacolo e dell’informazione.

Essendo stati i motori della Resistenza – ed essendo stata la Resistenza beatificata e scelta come scrigno dei valori fondanti della Repubblica – i comunisti hanno goduto di un’immunità particolare, riuscendo a sopravvivere alle rivelazioni sui Gulag e sulle purghe staliniane, ai milioni di morti, ai fatti di Ungheria, a quelli della Cecoslovacchia, al crollo del muro di Berlino, alla stessa implosione dell’Unione Sovietica. Ecco perché, unico caso in Occidente, una parte politica completamente squalificata e compromessa con un passato di cui sempre più si conoscono i fatti tragici, criminali e fallimentari, è riuscita a riciclare i propri uomini tanto che ancor oggi, dopo averli visti a Palazzo Chigi, li ritroviamo ai vertici del secondo partito italiano e addirittura al Quirinale.

Occorre dunque risalire al ruolo del PCI nella Resistenza e nella Costituente per comprendere come siano ancora possibili, in Italia, fatti a dir poco sconcertanti: un presidente comunista, Napolitano, che non mostra alcuna vergogna nel commemorare il ventennale della caduta del Muro di Berlino, mentre il governo dichiara il proprio appoggio alla candidatura di un altro comunista, D’Alema, addirittura al ruolo di ministro degli esteri d’Europa.

Inoltre, dopo più di sessant’anni, lo spirito gappista serpeggia ancora. Quando le tensioni politiche aumentano esce dai suoi nascondigli pitturati di vittimismo e perbenismo.

Negli anni Sessanta e Settanta, nei tempi dei cosiddetti “anni di piombo”, i muri erano pieni di scritte tipo “uccidere un fascista non è reato”. E si uccideva. Ogni tanto si vedono ancora slogan di quel genere.

Il 16 ottobre 2006, a Reggio Emilia, un gruppo di comunisti impedì a Giampaolo Pansa la presentazione di un suo libro sulla guerra civile. Sventolavano un lenzuolo rosso sangue con la scritta: “Triangolo rosso, nessun rimorso”.

Lo spirito bolscevico esiste ancora e non solo a livello di base, dei “trinariciuti” come li chiamava Guareschi. Il leader del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, parlando del buon vicinato della sinistra con i “poteri forti” si è lasciato scappare (Corriere della Sera, 19 settembre 2009): “Se non ci fosse il suffragio universale vinceremmo sempre noi”.

Giorgio Bocca, in una recente intervista televisiva, per esternare tutta la sua contrarietà per l’esistenza del governo Berlusconi, mostrando la sua alta vocazione democratica, ha detto: “gli italiani (che lo hanno votato, cioè la maggioranza) sono imbecilli”.

La testa bifronte della politica antifascista – da una parte la spudoratezza americana, dall’altra la logica bolscevica – ha sempre evidenziato questa caratteristica: quando le elezioni premiano la parte avversa sono soliti giudicare cretini gli elettori, giustificando ogni forma di sabotaggio verso il nuovo governo e, se il caso, arrivano a bombardare il malcapitato paese, per “liberarlo”.

Forse è proprio questa la democrazia.

Le valutazioni politiche

Oltre a quella storica e militare è opportuno, per individuare il reale spessore e la fisionomia della Resistenza, approfondire i contenuti politici di cui era portatrice e rapportarli a quelli del mondo che combatteva.

Le varie componenti del movimento partigiano – liberale, socialista, radicale, cattolica, monarchica – si ricollegavano alle ideologie ottocentesche e a modelli politici ed economici già proposti e spesso già sperimentati con esiti deludenti. Non c’era nessuna idea nuova, nessuna rivoluzione, eccezion fatta per la componente comunista che proiettava nell’agone politico il miraggio della lotta di classe e della dittatura del proletariato. Un obiettivo che si concretava nell’azione sovversiva, violenta e sanguinaria, ma era destinato, almeno in Italia, a rimanere un’utopia. Il PCI, fin dai tempi della resistenza, come si è visto, si esauriva nel ruolo di longa manus sovietica in un paese ad influenza USA.

Praticamente tutte le forze politiche rappresentate nel movimento partigiano, chi per un verso, chi per l’altro, erano subordinate alle nazioni che stavano vincendo la Seconda Guerra Mondiale. Da una parte ci si affidava agli anglo-americani, dall’altra si parlava con una “vistosa cadenza russa”. Innanzitutto per un discorso militare (unica possibilità di vincere era che prima vincessero gli “alleati”) poi per una sudditanza politica (l’unica possibilità di entrare nei parlamenti della nascente repubblica era quello di scegliere o il partito americano o quello sovietico). La Resistenza dunque era una piccola minoranza, senza un progetto politico unitario e originale, tenuta assieme solo dall’odio al fascismo e dal desiderio di proporsi come nuova classe dirigente al servizio dell’invasore. Non c’erano grandi contenuti politici da offrire per ottenere consensi da parte della popolazione. Unica idea-forza da poter sfruttare e che il 25 aprile 1945 consentì di riempire le piazze, era quella della “fine della guerra”. Un’immagine certamente vincente, dato che le popolazioni, dopo cinque anni di tragedie, difficoltà e sacrifici, erano allo stremo. Ma si trattava di un’idea-forza senza particolari colorazioni politiche, che poteva essere cavalcata da chiunque in quel momento fosse stato il latore del messaggio: americani, inglesi o partigiani poco importava.

Dall’altra parte il Fascismo, nonostante il breve periodo nel quale era stato al potere – vent’anni in Italia; il nazionalsocialismo in Germania solo dodici – aveva rappresentato, esso sì, una vera rivoluzione, sia con il superamento della democrazia partitocratica e la mobilitazione delle masse nella costruzione della nazione – il popolo come baricentro del potere e il lavoro come cardine dell’economia -, sia con la realizzazione di grandi opere pubbliche, sia con la fondazione di un nuovo tipo di assetto societario – lo Stato sociale -, sia con la scelta di riscattare la libertà dei popoli dal giogo del monetarismo e della grande usura internazionale.

E l’obiettivo delle forze demo plutocratiche – centri della finanza cosmopolita e giudaismo – che scatenarono il secondo conflitto mondiale era proprio questo: bloccare queste rivoluzioni e, con ciò, impedire il riscatto e la libertà dell’Europa.

Joseph Goebbels scrisse sul Das Reich del 28 aprile 1944: “Durante le campagne nei diversi paesi d’Europa, il soldato tedesco ha potuto rendersi conto quanto sia progredita la Germania nel campo delle previdenze sociali di fronte agli altri Stati. Ancor più stridente è il contrasto con le condizioni sociali assolutamente retrograde che si riscontrano in Inghilterra e in America”.

In Italia lo Stato sociale fu realizzato ancor prima.

Sono del 1923 le leggi per la tutela del lavoro di donne e bambini, l’assistenza ospedaliera per i poveri, l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assicurazione invalidità e vecchiaia, l’assistenza maternità e infanzia.
Sono del 1927 le leggi per l’assistenza agli illegittimi e abbandonati e l’assistenza contro la tubercolosi.

E’ del 1928 l’esenzione tributaria per le famiglie numerose; del 1929 l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali e l’Opera nazionale orfani di guerra.

L’INAIL, l’Istituto nazionale Infortuni sul lavoro, è stato fondato nel 1933.

Nel 1935 è istituito il libretto di lavoro e l’INPS, Istituto nazionale per la Previdenza Sociale.

Nel 1937 la settimana lavorativa è ridotta a 40 ore, sono introdotti gli assegni familiari e fondate le Casse rurali ed artigiane.

Nel 1939 è introdotta la tessera sanitaria per gli addetti ai servizi domestici e nel 1943 è fondata l’INAM, Istituto nazionale per le Assicurazioni contro le Malattie.

Un capolavoro sociale, dunque, in gran parte sopravvissuto sino ad oggi, sessant’anni di regime antifascista sono riusciti solo a demolirne parti, anche fondamentali, e non hanno aggiunto nulla di sostanzioso.

In molte nazioni ancora oggi si è molto lontani da quelle conquiste sociali che il Fascismo aveva realizzato in pochi anni. Basti pensare al presidente USA Obama che, nonostante le promesse elettorali, non è ancora riuscito a introdurre nello Stato americano l’assistenza gratuita ospedaliera per tutti. In Italia Mussolini l’ha realizzata 86 anni fa.

Il discorso delle opere pubbliche e urbanistiche è ugualmente fondamentale per comprendere che tipo di Stato si stava realizzando. Dopo 64 anni di democrazia ci ritroviamo con un’Italia dove, in un primo momento, si è dato libero sviluppo all’edilizia selvaggia, poi si è costruita una fitta, spesso inutile, ragnatela di autostrade e infine sono sorti ovunque, come funghi, centri commerciali d’ogni tipo, vere e proprie città del consumismo. I beneficiari di queste operazioni sono stati: nel primo caso gli speculatori, nel secondo la famiglia Agnelli e tutti gli altri costruttori d’auto, nel terzo le multinazionali agevolate nel piazzare i prodotti della globalizzazione. Non certo il popolo.

Le opere del fascismo sono state di tipo diverso. Le bonifiche delle zone paludose e incolte: più di cinque milioni di ettari, prima inutilizzabili, consegnati al lavoro dei contadini. Paludi pontine, Tavoliere delle Puglie, latifondo siciliano, aree insalubri del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Maremma, del Garigliano, del Volturno, del Sele, della Basilicata, di Sibari, della Sila, del Neto e della Sardegna.

Oltre 100 (cento!) città, borghi e villaggi realizzati ex novo per ospitare le nuove comunità agricole, minerarie ed artigiane. Acilia, Littoria (l’attuale Latina), Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Guidonia, Pomezia, Carbonia, per citare solo le più note. E si costruiva bene: durante il recente terremoto dell’Aquila le case edificate durante il regime fascista sono rimaste tutte in piedi; a venir giù sono state quelle “democratiche”, anche quelle recentissime, nonostante il fatto che, in teoria, la moderna tecnologia possa oggi offrire all’edilizia maggiore qualità, affidabilità e controlli.

In campo legislativo, in quegli anni, è stata realizzata una monumentale rivoluzione. L’intera impalcatura dei quattro codici, penale e di procedura penale, civile e di procedura civile, viene ricostruita completamente e nascono il codice forestale e quello di navigazione.

In campo economico fascismo e nazionalsocialismo avevano individuato il fulcro della lotta di potere che si stava sviluppando a livello planetario – che poi ha raggiunto le follie di cui oggi stiamo vivendo le conseguenze – cioè il progetto mondiali sta di governare l’intero globo attraverso il monetarismo, l’usura bancaria e la speculazione finanziaria.

“Contro Giuda, contro l’oro, sarà il sangue a far la storia”, cantavano i volontari della RSI.

Il governo Mussolini aveva realizzato un saldo controllo della rete bancaria, aveva contrapposto Banche di Stato a quelle della speculazione privata e aveva istituzionalizzato la diffusissima, capillare struttura delle Casse di Risparmio, costringendole a rigidi vincoli statutari no profit. Aveva inoltre collegato strettamente la Banca d’Italia agli Enti statali, raggiungendo l’obiettivo del suo controllo ed evitando che divenisse – come oggi invece è avvenuto – terra di pascolo di gruppi privati.

E’ sempre opportuno ricordare che il governo della Germania, in quegli anni, nazionalizzava la Banca Centrale, affermando in modo in equivoco che il proprietario della moneta deve essere il popolo. Contemporaneamente Stalin privatizzava l’Istituto di emissione sovietico, vendendolo alla finanza ebraico-americana.

I combattenti della RSI, ovviamente con un’ampia gamma di differenziazioni individuali, erano portatori di un’idea nuova ed erano i testimoni attivi di una rivoluzione che aveva cominciato a realizzarsi, con successo. Dall’altra parte, nella resistenza, quelli che combatterono in buona fede, erano spinti da una generica voglia di libertà che, come abbiamo visto, spesso si confondeva con il prorompente desiderio di vedere la fine della guerra.

Il fascismo fu politicamente una fucina di idee, culturalmente un’eccezionale esplosione di creatività, scientificamente un opificio di ingegni ed inventiva. Ancora oggi l’architettura e il design prendono le mosse dalle correnti che in quegli anni si formarono. Il Futurismo ha condizionato tutto il mondo artistico.

L’aviazione italiana era ammirata nel mondo. A New York fu dedicato un viale a Italo Balbo, in onore della transvolata atlantica del 1933, nella quale il quadrumviro della Marcia su Roma comandò uno squadrone di 25 idrovolanti.

Erano gli anni di Guglielmo Marconi e delle sue invenzioni. I primi studi sulla fissione nucleare furono fatti all’Università di Roma.

Durante il Fascismo si formò una gioventù estremamente ricca di idee e cultura. Una parte di questa visse quest’esperienza anche come scelta di militanza politica e si mise in prima fila in ogni opportunità che la rivoluzione le offriva. Scrive Alberto Bairati, redattore di Vent’anni, il giornale di Guido Pallotta, “per noi il Fascismo doveva essere un qualcosa che rendesse gli uomini migliori, più puri, più onesti, più generosi, che li facesse mettere a disposizione del Paese”.

Erano i giovani entusiasti, quelli destinati a divenire la nuova classe dirigente del fascismo. Ma da militanti, sin dall’inizio della guerra, coerentemente partirono volontari e furono tra i primi a morire.

D’altra parte, per la Repubblica nata dalla resistenza non esisteva una classe dirigente alternativa che si fosse preparata vivendo un’altra rivoluzione, frequentando altre scuole, forgiandosi ad un’altra cultura.

Quasi tutti i nuovi governanti erano cresciuti nell’Italia fascista esattamente come i Pallotta, Giani, Ricci, Pavolini, Mezzasoma. La nuova classe dirigente era dunque formata da individualità che, per scelte che si sono differenziate nel corso delle esperienze, degli avvenimenti, degli anni, o – la maggioranza – per convenienza, aveva preso le distanze dal Ventennio, ma si erano preparati nelle università del fascismo, nei GUF – i gruppi universitari -, nei Littoriali, nelle redazioni dei tantissimi giornali fascisti. Mi riferisco, tanto per fare qualche nome, nel mondo della politica, a personaggi come Andreotti, Fanfani, Ingrao, Moro, Preti, Spadolini e Taviani. Nel mondo del giornalismo, a Biagi, Bocca, Gorresio, Orlando, Rusconi, Montanelli e Zangrandi. Nel mondo della cultura a Quasimodo, Ungaretti, Montale, Gatto, Dessì, Pasolini, Pratolini, Pavese, Vittorini e Guttuso. Nel mondo del cinema a Rossellini, Antonioni, Comencini, lattuada, Lizzani, Zavattini e Blasetti.

Nonostante fosse dichiarata pregiudizialmente “antifascista”, la realtà che si andava delineando necessariamente pescava uomini e idee proprio nel mondo che voleva negare. Togliatti, dietro le quinte, invitava i dirigenti del PCI a imparare dal Fascismo; egli arrivò, nei suoi rapporti di partito, a indicare l’ideologia fascista come “un fattore essenziale nella formazione della sua base di massa”.

Affermò inoltre: “Se l’industria italiana è ancora un’industria debole in paragone con altri paesi, specialmente per la mancanza di materie prime, dal punto di vista della sua organizzazione interna è stata portata dai fascisti a un grado di sviluppo che si avvicina a quello dei paesi avanzati”. Togliatti individuava nel sindacato e nel dopolavoro fascista le organizzazioni di massa da studiare ed emulare. E’ molto chiaro nel definirli non meri fiori all’occhiello propagandistici del regime, ma “istituzioni effettivamente funzionanti e dinamiche della società civile”.

La Resistenza dunque, oltre a non aver avuto un suo patrimonio di idee nuove, non disponeva neanche di una propria classe dirigente. Le strade che si offrivano per il “dopo” erano caratterizzate principalmente dal servilismo ai blocchi dei vincitori della guerra – Occidente e URSS – coll’aggiunta di un forte condizionamento del Vaticano e della sua capillare rete clericale, ansiosa, dopo vent’anni di Stato forte, di tornare a muoversi con quella libertà e invadenza, come già goduta nei lunghi secoli del suo potere temporale.

Due mondi si stavano scontrando dunque, uno realmente rivoluzionario, sociale, popolare, ricco di idee, di creatività, di intraprendenza e di ardimento, battuto ma non rassegnato; un altro che nasceva dalla sconfitta – accettata con soddisfazione -, che rinunciava ad ogni sovranità ed era apertamente servile verso i nuovi padroni. Un mondo portatore di una concezione della politica, dello Stato e della partecipazione grigia, opaca, triste e deludente.

Oggi, dopo 64 anni, la politica è praticamente morta, le idee sono uscite dal dibattito e il confronto si esaurisce nel gossip e nelle contrapposizioni personali. La gente si disinteressa, le sedi di partito sono vuote, quando non sono addirittura chiuse. Sono rarissimi i libri che trattano la storia di questi decenni, ancor meno quelli che propongono le idee di questi tempi democratici, mentre sono usciti, e continuano a uscire con ritmo incalzante, migliaia di libri, film, documentari, sull’Europa fascista e nazionalsocialista di quei pochi anni tra le due guerre mondiali.

Il giudizio morale

Abbiamo svolto considerazioni sui combattenti della RSI e sui partigiani dal punto di vista storico, militare e politico e abbiamo anche affrontato il tema del rispetto dovuto a chi, in buona fede, combatte per un’idea e offre la vita per la sua affermazione.

Ma c’è una fetta della storia della guerra civile che rappresenta un capitolo a sé, non trova giustificazioni e, anzi, configura una questione morale insormontabile e ineludibile. Ci riferiamo agli assassinii perpetrati, a guerra finita, dopo il 25 aprile 1945, su fascisti o presunti tali e parenti di fascisti. I casi di persone fatte oggetto di vendette personali, o di famiglie benestanti massacrate per saccheggiarne i beni furono all’ordine del giorno.

Non si tratta di episodi marginali, provocati da qualche esaltato, di casi sporadici e isolati; si tratta di una mattanza sistematica, che ha insanguinato il nord Italia per mesi e, in alcune zone, per anni. E’ un’infamia che coinvolge tutta la cosiddetta “guerra di liberazione”: la Resistenza interna – sia nella base che nelle dirigenze, perché, anche quando non furono coinvolte direttamente nei crimini, tutti trattarono la questione con estrema disinvoltura, spregiudicatezza e omertà – e anche le Forze Armate “alleate” che lasciarono volutamente mano libera ai massacratori. Basti pensare a ciò che avvenne a Trieste dopo la cosiddetta liberazione: i partigiani di Tito arrestavano, uccidevano e deportavano gli italiani nonostante la presenza in città delle truppe neozelandesi.

L’istruzione operativa n. 5 del quartiere generale “alleato”, inviata il 4 aprile 1945 ai comandi della Quinta e Ottava Armata, definisce i comportamenti da tenere nei confronti delle formazioni partigiane per quanto riguarda il trattamento da riservare ai prigionieri fascisti: “E’ certo che al loro arrivo nell’Italia settentrionale, gli alleati troveranno una situazione nella quale i partigiani avranno già intrapreso azioni violente contro militari e funzionari fascisti, azioni che potranno prendere la forma di esecuzioni, pestaggi, imprigionamenti o destituzione dagli incarichi. L’atteggiamento degli alleati sarà il seguente:
a) nessuna azione verrà intrapresa rispetto a esecuzioni, pestaggi o destituzioni decise dai partigiani prima del loro arrivo,
b) i fascisti precedentemente imprigionati dai partigiani non saranno, salvo casi eccezionali, liberati dalle autorità alleate, ma rimarranno a disposizione delle autorità italiane per i processi di epurazione che essi vorranno intraprendere”
Roberto Battaglia, comandante di Giustizia e Libertà e primo “storico” della resistenza, affermò: “L’epurazione dobbiamo farla adesso, ché dopo la liberazione non si farà più, perché in guerra si spara, finita la guerra non si spara più”.

Il coinvolgimento dei comandi “alleati” e di tutta la Resistenza ha indotto la storiografia ufficiale a minimizzare, nascondere e negare. Lo fece, spudoratamente, Mario Scelba, allora ministro dell’Interno, l’11 giugno del 1952, affermando in Parlamento che il numero delle vittime accertate era solo di 1.732. Lo hanno continuato a fare gli storici “accreditati”, i registi in cerca di successo e i giornali compiacenti.

Afferma Giampaolo Pansa: “Una grande bugia nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti debbono continuare a tacere”.

“I vincitori – afferma Pansa – si sentono gli unici custodi del solo racconto autorizzato e legittimo del conflitto interno che insanguinò l’Italia fra l’autunno del 1943 e l’aprile del 1945. Per poi sfociare in una dura resa dei conti sui fascisti sconfitti. E tutto ciò contraddice il racconto da loro difeso deve essere smentito o, meglio ancora, taciuto, ignorato, cancellato”.

La congiura del silenzio è stata così massiccia che spesso l’individuazione dei numeri esatti è risultata quasi impossibile. Stiamo infatti parlando di un censimento che riguarda anche corpi che sono stati fatti sparire e fosse comuni che non sono ancora state rintracciate.

Sul numero degli zeri invece non ci sono più dubbi. Il giornalista Carlo Simiani, uomo della Resistenza, fece un’onesta indagine e la pubblicò in un volume ormai introvabile – I giustiziati fascisti nell’aprile 1945 – in cui riferiva di 40.000 uccisioni. Giorgio Pisanò, a seguito delle sue preziose e meticolose indagini, arrischiò la cifra di 46.000. Livio Valentini, dell’Istituto storico della RSI, arriva a 30.000, Giampaolo Pansa a 31.500, Gianantonio Valli ad un minimo di 35.000. Per rendersi conto della dimensione della mattanza dei fascisti effettuata nella settimana successiva al 25 aprile 1945 basta raffrontare queste cifre con il numero – 2.500 – delle uccisioni della mafia in dieci anni.

Insomma, decine di migliaia di delitti, assassinii inutili, esecuzioni feroci, tutti compiuti a guerra finita, a danno di persone disarmate, che non opponevano resistenza e non rappresentavano un pericolo per alcuno.

Esistono molti libri sull’argomento, che indichiamo nella bibliografia, cui rimandiamo i lettori interessati ad approfondire in modo esaustivo questi avvenimenti. Ci limiteremo qui ad una sintetica – e sicuramente incompleta – trattazione e a citare solo alcune delle stragi più efferate.

In Friuli si ebbe la decimazione del Battaglioni volontari Bersaglieri “Benito Mussolini”, soldati prima rinchiusi in caserma a Tolmino, poi prelevati a gruppi e trucidati sul greto dell’Isonzo, a Fiume, a Gorizia. I superstiti furono internati nel campo di prigionia jugoslavo di Borovnica nel quale molti trovarono la morte per fame, epidemie, torture. Solo 150 di loro, dopo il giugno 1947, rividero l’Italia; molti erano ridotti in tali condizioni fisiche che, nonostante il ricovero in ospedale, morirono nelle prime settimane del loro rientro in Patria.

La ferocia dei partigiani comunisti di Tito si scatenò contro le popolazioni italiane in Istria. Furono gettati, a gruppi di centinaia, nelle tristemente note foibe carsiche migliaia di italiani. Molti venivano “infoibati” ancora vivi. In Friuli e Venezia Giulia si raggiunse il tragico primato di uccisioni dopo il 25 aprile 1945, circa 12.000.

Anche in Veneto le vittime furono migliaia; i picchi si ebbero nelle provincie di Vicenza e Treviso.

A Oderzo 126 giovani della GNR e della Scuola allievi ufficiali arresisi al CLN il 28 aprile, dietro promessa di aver salva la vita, furono trasportati a Ponte della Priula e sul fiume Monticano e massacrati.

In quella zona, per festeggiare il matrimonio del capo partigiano Adriano Venezia, detto Biondo, con l’augurio di avere 12 figli, vengono prelevati 12 fascisti e fucilati lungo l’argine del Piave.

Sempre in provincia di Treviso, nei pressi della cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera, tra la fine di aprile e la prima settimana di maggio furono sterminate 3.400 persone.

Scrive Antonio Serena, autore di una recente, dettagliata ricostruzione storica, La cartiera della morte: “Delle vittime – fascisti rastrellati nella zona e civili uccisi per motivi di vendetta e rapina – solo un centinaio furono riconosciute perché quasi tutti i corpi, come dichiareranno diversi testimoni a guerra finita, furono gettati nelle acque del fiume Sile, bruciati nei forni della cartiera o sciolti nell’acido. Le maggiori efferatezze avvennero all’interno della cartiera, dove imperava Gino Simionato, detto Falco”.

A Codevigo, vicino Padova, furono massacrate centinaia di persone. Parte dei corpi gettati in fosse comuni che solo in parte sono state rintracciate. Altri buttati nelle acque del fiume Brenta. Dopo ricerche durate fino al 1962 i parenti degli uccisi sono riusciti a recuperare i resti di 114 vittime: 77 a Cedevigo, le altre a S. Margherita e Brenta d’Abbà. E’ stato realizzato un ossario comune, anche a ricordo di tutti coloro i cui resti non saranno mai più ritrovati.

Nella notte fra il 6 e il 7 luglio i partigiani entrarono nel carcere di Schio dove erano rinchiuse 99 persone, 8 detenuti comuni e 91 fascisti o presunti tali. Per alcuni di loro appurata l’estraneità a fatti delittuosi, era già pronto l’ordine di scarcerazione. I partigiani raggruppano i prigionieri in uno stanzone e li mitragliano. Sopravvissero solo quelli che, caduti per primi, furono protetti dai cadaveri che gli erano finiti addosso. Morirono 54 persone, tra cui una ragazza di 16 anni e altre 13 donne. Ai cittadini che, richiamati dal frastuono degli spari prolungati, avevano raggiunto il carcere, si presentò uno spettacolo raccapricciante: il sangue, colato attraverso la scala e il cortile, era arrivato alla strada.

In Lombardia le vittime furono 8-10.000, con la punta massima nella provincia di Milano dove gli assassinii furono calcolati in 5.000 (3.500 in città). Sono state testimoniate esecuzioni sommarie di gruppi di militi disarmati a Pescarenico (Lecco), Lovere (Bergamo), S. Eufemia e Botticino Sera (Brescia), Varese, Como, Brescia, Pavia.

A Sondrio fu riempito il carcere di fascisti. I partigiani ogni giorno andavano a prelevarne un gruppo (una trentina per volta), che conducevano fuori e fucilavano. Fece particolare scalpore l’uccisione di due capitani medici e del sottotenente Alfredo Paganella che, portato in cima ad un campanile, fu gettato sulla piazza sottostante.

A Rovetta, in provincia di Bergamo, la Sesta compagnia della Legione Tagliamento al comando del sottotenente Roberto Panzanelli, di presidio al Passo della Presolana, il 26 aprile tentò la resa con i responsabili locali del CLN. Erano 47 ragazzi dai 14 ai 22 anni. Ricevuta l’assicurazione di essere trattati conformemente alle convenzioni internazionali, consegnarono le armi e furono rinchiusi nei locali della scuola elementare.

Sopraggiunsero da Lovere 160 partigiani al comando dello slavo comunista Paolo Poduie, che si faceva chiamare il Moicano. Sbrigativamente, i prigionieri furono sottratti alla custodia dei dirigenti di Rovetta e si stabilì che dovessero essere fucilati. A chi avanzava qualche perplessità in considerazione della giovane età dei prigionieri e del fatto che uno di loro, il ventenne vicebrigadiere Giuseppe Mancini, fosse il nipote di Mussolini, il Moicano rispose: “Abbiano un anno, due anni, siano figli anche del Papa, devono essere tutti fucilati”.

Il giovane Mancini, anzi, fu fucilato per ultimo, per farlo assistere alla morte di tutti i suoi camerati: come ultimo gesto salutò il mucchio dei 42 cadaveri riversi a terra, lungo il muro esterno del cimitero, poi si aprì la camicia, rivolgendosi con dignità alle canne da fuoco partigiane. Solo in quattro, alla fine, furono “graziati”, perché avevano meno di 16 anni.

La notte precedente, nell’attesa dell’esecuzione, i prigionieri furono trasportati – come riferisce Grazia Spada nel suo approfondito libro Il Moicano e i fatti di Rovetta – “in una zona di baite nei pressi del paese, ufficialmente per evitare che una colonna di tedeschi in ritirata lungo la provinciale li veda, ma più probabilmente perché sanno ciò che la Brigata “Camozzi” sta preparando e forse vogliono evitare che, qualora la situazione precipiti, l’irreparabile accada in paese”.

Il partigiano Buchi (Angelo Rossi di Giustizia e Libertà), con alcuni altri partigiani “decide di prendersi qualche svago: a suon di botte allinea i legionari lungo le pareti di due cascinali vicini, pretendendo di voler procedere alla loro fucilazione con le armi puntate nell’attesa dell’ordine di fuoco. Poi pare ripensarci e fa condurre i giovani nella vicina baita Gratarola dove li ammassa nella stalla al piano terra mentre lui e gli altri partigiani si sistemano al piano superiore. Inizia così una lunga notte di violenza. “Il Buchi e tutti gli altri presero a gozzovigliare e si divertivano a immaginare di quale morte ci avrebbero ucciso, se tramite fucilazione o per impiccagione o ambedue, per il giorno successivo: queste le affermazioni che dal sovrastante locale ci venivano trasmesse a squarciagola. A ore alterne scendevano a maltrattarci, bastonarci e depredarci, tanto che a me fu strappata un’armonica a bocca regalatami dal compianto capitano Alberto Martinola, comandante della mia compagnia d’appartenenza, la quinta, caduto sul Mortirolo, cui tenevo moltissimo, e con la quale stavo tentando di rialzare il nostro morale” (testimonianza di uno dei quattro sopravvissuti, Ferdinando Caciolo). La ricompensa del Buchi per quella nottata sono gli orologi, i portafogli e le catenine dei ragazzi”.

A Milano la mattanza fu lunga e indiscriminata. Alcuni camion, ogni giorno, giravano la mattina per recuperare i cadaveri dei fascisti dai bordi delle strade. Molti avevano gli occhi strappati dalle orbite.

Il cieco di guerra, medaglia d’oro, Carlo Borsani venne assassinato in piazzale Susa, insieme a don Tullio Calcagno, il sacerdote direttore di Crociata Italica. Il cadavere fu gettato su un carretto della spazzatura e portato in giro con un cartello su cui era scritto “ex medaglia d’oro”.

Nel solo Campo 10 del cimitero di Musocco, nella periferia nord ovest di Milano, sono sepolti oltre 1.000 fascisti uccisi dopo il 25 aprile.

La storica immagine di piazzale Loreto con i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e dei dirigenti fascisti assassinati a Dongo appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina è l’orrido simbolo di una città preda di folli bande armate, abbandonata ad animaleschi istinti e spoglia di qualsiasi valore morale e civile.

In Piemonte il numero dei delitti non fu minore. Nella sola provincia di Torino se ne contarono 5.000.

Si ricordano le esecuzioni “a gruppi” di Avignana e Cigliano dove, il 27 aprile, si arresero 24 ufficiali del 2° RAU (Reparti Arditi Ufficiali) che furono rinchiusi nell’albergo Cavallino Bianco assieme a cinque ausiliarie e due donne, una delle quali incinta. Successivamente furono trasferiti tutti a Graglia dove per giorni, senza mangiare e bere, furono sottoposti a percosse e sevizie d’ogni genere. Il 2 maggio, infine, furono fucilati a gruppi nella campagna circostante.

Nel biellese la ferocia partigiana toccò limiti estremi. Sono innumerevoli le storie di uccisioni, così come quelle di sevizie e stupri. In quella zona operò Francesco Moranino, detto Gemisto, al comando del distaccamento Pisacane delle brigate Garibaldi. Ma Moranino non infierì solo sui fascisti. A guerra finita fu processato e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Firenze per la strage della missione Strassera, l’eliminazione di sette partigiani “non comunisti”. Il PCI lo fece eleggere senatore e Giuseppe Saragat, una volta divenuto Presidente della Repubblica, lo graziò, nonostante non avesse fatto un solo giorno di galera.

Il 27 aprile, nei pressi di Vercelli, si arresero tutte le forze della RSI della zona, circa 2.000 soldati. Furono rinchiusi nello stadio di Novara allestito, per l’occasione, come campo di concentramento. Il 12 maggio arrivarono i partigiani di Gemisto che prelevarono un cospicuo gruppo di prigionieri e li condussero nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli. Qui si scatenò una mattanza da film dell’orrore; riferiscono i testimoni: 51 militi delle Brigate Nere furono straziati vivi; ad un camion attaccavano la testa con un fil di ferro e ad un altro le gambe, li squartavano e poi ci passavano ancora con le ruote; alle cave di Lozzolo ci fu un’esecuzione di un altro gruppo, fra cui un ragazzo di 19 anni; all’interno dell’ospedale le pareti erano sporche di sangue per un’altezza di due metri. Si trovarono cadaveri anche nell’orto, vicino alla lavanderia e anche a Larizzate, una frazione a sud di Vercelli; altri, caricati su due autocarri e una corriera, furono portati sul ponte di Greccio, sul canale Cavour e, a quattro a quattro, fucilati e gettati in acqua. Nei giorni seguenti, nei fossati d’irrigazione collegati con quel canale, furono ripescati oltre 60 cadaveri.

Nel cuneese le uccisioni, seguite a violenze d’ogni genere, furono talmente numerose da indurre il Vescovo, Giacomo Rosso, a far affiggere, in città e nei borghi limitrofi, un manifesto nel quale si chiedeva ai partigiani di dar fine a “giudizi sommari” e “vendette”, lasciando il compito di far giustizia alle Autorità costituite.

Riferisce il partigiano Lino Toselli, in un suo libro di memorie, di parecchie azikoni compiute in quei giorni, come, ad esempio, lo sterminio dei componenti della famiglia Giordano-Giraudo avvenuta a Sant’Antonio Aradolo. La madre e la figlia, risparmiate, furono costrette, assieme ad altre ragazze del posto e una decina di ausiliarie della Divisione Littorio, a rimanere nelle loro case trasformata in “bordello per partigiani”. Dopo una settimana di “questo trattamento” furono portate lontano dal paese e fucilate.

Tristissime anche le cronache di quei giorni provenienti dalla Liguria. A Genova si contarono 1.500 vittime. Il servizio recupero cadaveri fu per molti giorni svolto da autocarri targati Città del Vaticano.

1.0 furono gli uccisi a Savona, 1.000 a Imperia, 300 a La Spezia.

Nel savonese, sul Monte Manfrei, tra i comuni di Vara e Sassello, furono massacrati, i primi di maggio, 200 ragazzi della divisione San Marco che avevano consegnato le armi alle autorità della zona. Età media 18 anni. I partigiani li trasportarono nella zona tra la località La Romana e il Passo del Faiello. Denudati e legati mani e piedi, furono falciati dalle mitragliatrici e sepolti, alcuni ancora vivi, in fosse scavate nel sottobosco e poi ricoperte da foglie.

Nel 1948 il sindaco di Urbe, sollecitato dall’Associazione familiari caduti e dispersi della RSI, iniziò la ricerca delle fosse. Un lavoro che durò otto anni, ottenendo il recupero dei resti di 61 vittime. Nel 1957 bi carabinieri, con due documenti, dichiararono l’impossibilità di proseguire le ricerche a causa del terreno scosceso e impervio. Alcuni partigiani, interpellati all’epoca sull’eccidio, si giustificarono affermando che i prigionieri erano troppi per poterli internare e “dover pure dar loro da mangiare”.

A Cadibona, sopra Savona, al km 142 della provinciale 29, trentasette prigionieri furono fatti scendere dalla corriera sulla quale erano trasportati, condotti all’interno della boscaglia, spogliati e abbattuti con colpi sparatigli alla testa. I cadaveri, rotolati nella scarpata, furono trovati nelle settimane successive. Nella zona si parla ancora della “corriera della morte”.

A Guidobono di Legino, alla periferia di Savona, il 27 aprile tre partigiani prelevarono Giuseppina Gersi, una bambina di 13 anni che nello svolgimento di un tema aveva scritto di “ammirare Benito Mussolini”. La portarono nei locali della scuola media, la stuprarono per ore e poi la uccisero. C’è, ancora oggi, qualche mano anonima che lega al cancello di quell’edificio un fiore con una fettuccia tricolore.

Un orrido scenario si apre anche approfondendo ciò che avvenne in Emilia e in Romagna. Le vittime furono oltre 10.000. La mattanza durò molto più a lungo che nelle altre regioni: ci furono assassinii fino al 1949.

A Ferrara, nel carcere Piangipane, l’8 giugno entrò una squadra di partigiani. Individuarono i prigionieri politici e li radunarono al fondo di un corridoio; cominciarono a falciare i fascisti con ripetute raffiche di mitra. Nell’eccitazione provocata dall’esecuzione, continuarono a sparare, a lungo, sopra i cadaveri. Il capo guardia del carcere, siccome si era dimostrato visibilmente turbato, fu ucciso nel cortile. Prima di uscire, i partigiani fecero evadere i reclusi per reati comuni.

La zona delimitata dalle provincie di Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara, fu denominata “il triangolo della morte”. I giornalisti e gli storici che si sono occupati della questione sono arrivati a redigere un elenco di 3.976 vittime con un nome; oltre 550 sono i corpi non identificati, parecchie centinaia gli scomparsi di cui non si è mai trovata traccia.

Si tratta di uno stillicidio di storie maledette dove le vendette politiche si intersecano con faide tra famiglie, questioni personali e razzie di cose e beni.

Un solo esempio per tutti: la strage dei fratelli Govoni. Scrive Giorgio Pisanò: “Uno dei fatti più atroci compiuti nel bolognese dopo la liberazione, accadde la sera dell’11 maggio 1945 allorché, in una casa colonica della campagna presso Argelato, un gruppo di partigiani, in maggioranza comunisti, seviziarono e strangolarono ad una ad una 17 persone: sette di queste appartenevano alla stessa famiglia. Erano i fratelli Dino, Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo e Ida Govoni. Il massacro di questi sette fratelli costituisce di certo una delle pagine più spaventose di tutta la guerra civile. Dei sette Govoni solo due, Dino e Marino, erano iscritti al Partito Fascista Repubblicano. Gli altri cinque non si erano mai interessati di politica; la più giovane, Ida, appena ventenne, si era sposata da poco ed era mamma di una bambina di solo due mesi”.

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Oltre alle decine di migliaia di omicidi gratuiti ed efferati commessi dai partigiani dopo la fine delle ostilità, vanno ricordati anche i 400.000 prigionieri trattenuti in condizioni spesso disumane e alle 500.000 epurazioni durate sino alla svolta delle amnistie del 22 giugno 1946 dell’allora ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, e del 7 febbraio 1948 proposta da Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Nel corso dei processi istituiti sull’onda delle “giornate radiose della liberazione” non fu risparmiato nessuno. Si portarono alla sbarra anche le vedove di guerra, colpevoli di essersi dichiarate orgogliose del sacrificio eroico dei propri mariti e, coerentemente, di aver aderito alla Repubblica Sociale.

A Varese fu portata dinanzi alla Corte d’Assise la vedova della medaglia d’oro Niccolò Giani. Il processo si concluse con la condanna dell’imputata a tre anni, sette mesi e otto giorni di reclusione.
Certamente, per concludere, a carico della Resistenza esiste una pesantissima e incancellabile questione morale determinata da una infamante pagina di violenza e sangue che si è cercato in ogni modo di nascondere, negare e dimenticare. Si è persino inserito nel codice penale – nell’articolo 290 – il reato di “vilipendio delle forze armate della liberazione”.

Una questione morale che è impossibile non ricordare tutte le volte che si parla di “valori” della Resistenza.

La realtà istituzionale e l’esigenza della piena sovranità

E’ chiaro, concludendo l’osservazione dei fatti attinenti la guerra civile e la Resistenza, che l’attuale assetto politico italiano ed europeo è direttamente collegato, nonostante i sessantaquattro anni trascorsi, proprio a quegli avvenimenti, alle scelte fatte o subite allora, alle situazioni di subalternità accettate e alle quali non ci si è ancora ribellati.

I famosi “valori” della Resistenza, che si indicano ancora oggi come l’elemento condizionante della realtà istituzionale italiana e della legittimità politica, dopo le considerazioni che abbiamo fatto, assumono quanto meno un tono indefinito ed approssimativo, il riflesso di una storia che, se ha qualche luce, sicuramente ha molte ombre; si rivelano spesso “valori” costruiti a posteriori, ad uso dei vincitori: un francobollo raffazzonato, appiccicato ad un pacco, quello della Repubblica “antifascista”, completamente vuoto di ogni forma di sovranità.

Ma la mancanza di sovranità non è cosa da poco: rappresenta una gabbia che preclude ogni reale cambiamento, una gabbia dalla quale occorre uscire in fretta per dare libere prospettive all’Italia e all’Europa di domani.

Libertà di avere un’autonoma politica estera, di gestire il proprio sviluppo economico, di proporre originali scelte monetarie, di andare a cercare, dove più conviene, l’approvvigionamento delle fonti energetiche e delle materie prime.

Libertà di scrivere un nuovo Patto, una nuova Costituzione non più soggetta a condizionamenti e vecchie suggestioni ideologiche.

Il sistema politico Italia, così come è regolamentato dalla Carta – e i recenti scontri tra Palazzo Chigi, Quirinale e Consulta lo hanno ben evidenziato – prevede un potere politico debole, impossibilitato a innescare profonde ristrutturazioni e sempre sottoposto alle pressioni dei cosiddetti “poteri forti” che continuano a dominare e situarsi sopra le leggi.

Si tratta della caratteristica, sempre ricorrente, delle moderne democrazie occidentali. Anche in America il potere politico risulta essere sotto tutela della Federal Reserve e delle lobbies.

Il ministro delle Finanze Tremonti, nell’interesse dei cittadini, ha ripetutamente previsto nuove regole per gli Istituti di Credito e per la Banca Centrale, ma si è scontrato con la spavalderia di questi poteri i quali, come nulla fosse, hanno continuato a fare ciò che vogliono, ignorando le nuove leggi. Dopo aver provocato la crisi, il sistema bancario – indisturbato – si sta organizzando per speculare sulle conseguenze della ridotta liquidità. Nathan Rothschild ammoniva: “Compra quando il sangue scorre nelle strade, e vendi al suono delle trombe”.

Finché la politica sarà debole, sarà molto difficile cambiare il corso delle cose. E finché ci sarà questa Costituzione e perdurerà la sudditanza ai poteri internazionali che si sono “alloggiati” da noi fin dal 1945, la politica continuerà a rimanere debole.

Il popolo è libero di eleggere i camerieri, ma i padroni nessuno è legittimato a sceglierli, a contraddirli, a rimuoverli.

Occorre rifondare lo Stato, ritrovare i valori del nostro popolo e della nostra civiltà, riscrivere il Patto, riconquistare, ad una ad una, tutte le sovranità di cui ha bisogno una nazione per essere veramente libera. E per farlo è necessario che il popolo accetti di guardarsi, con estrema onestà, nello specchio della propria storia.

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