Quartiere EUR – Roma

Nei mesi scorsi si è tanto scritto e parlato sulla veridicità delle affermazioni, fra l’altro molto comuni, che vedono comunque nel ventennio fascista un periodo di grandi innovazioni, riforme e fermento culturale oltre che di innovazione strutturale del paese: sanità, previdenza sociale, lavori pubblici, lotta alla criminalità organizzata e tanto altro ancora. A prescindere dagli errori commessi dal fascismo è lecito credere o no a queste affermazioni?

Oltre agli studi classici di Renzo De Felice e di alcuni suoi discepoli, tanti altri volumi sono stati scritti sul fascismo. Fra queste una pubblicazione appena uscita in Italia, e che consiglio, è quella di Maurizio Serra “Il caso Mussolini”.

Di recente però qualcuno ha tentato di capovolgere gli eventi, o meglio, di articolarli interpretandoli con le lenti deformanti della morale cadendo pertanto nella trappola di sovrapporre la valutazione morale alla valutazione storica (cit. Valerio Benedetti che condivido).

Voglio pertanto riportare alcuni articoli che cercano di screditare le opere del fascismo e altri che invece contribuiscono a smontare le accuse in modo che il lettore possa farsi una idea chiara sull’argomento ed eventualmente approfondire in tal senso. Ovviamente citerò sempre le fonti.

Benito Mussolini

Mussolini e le cose buone che non ha mai fatto.

Open – 15 Marzo 2019

Pensare che personaggi come Mussolini possano essere assolti dalla Storia in nome di qualche opera architettonica o politiche economiche di vario tipo è già di per sé inconcepibile. Ma spesso le «cose buone» che avrebbe fatto non trovano riscontri oppure sono semplicemente sopravvalutate

Quanto affermato recentemente dalpresidente del Parlamento europeo Antonio Tajani su Benito Mussolini potrebbe sembrare legittimo: si condanna il dittatore autore delle leggi razziali al nettodelle «cose buone», senza per questo assolverlo dalle gravi responsabilità storiche.

Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche. Da un punto di vista di fatti concreti realizzati, non si può dire che non abbia realizzato nulla.

Il problema è che, se andiamo a verificare le cose buone attribuite a Mussolini, ci accorgiamo spesso che sono state ingigantite, oppure non trovano alcun riscontro storico. Se vogliamo fare ilbilancio della vita di un personaggio storico, questo deve avvenire attraverso dati reali, altrimenti stiamo solo dando libero sfogo alla dissonanza cognitiva: cerchiamo di controbilanciare gli aspetti negativi creandone di positivi, a volte dal nulla. Esattamente come fanno i negazionisti della Shoah, convinti che negando l’olocausto degli ebrei si possa salvare il lascito del regime nazista.Oppure ci si inventa un complotto della «Storia scritta dai vincitori». Di seguito per brevitàriportiamo solo una piccola parte deifalsi miti sulle presunte cose buone del regime di Mussolini, che persino figure politiche del tutto estranee al fascismo continuano a dare per scontate.

I treni in orario

Apriamo col tormentone più gettonato, quello dei treni sempre in perfetto orario, di cui parlava anche la propaganda nazista di Goebbels. Ed èun sintomo del fatto che ci fosse un problema già allora nel far arrivare i treni secondo gli orari previsti. Problema mai risolto, non esistono dati che attestino un cambiamento in positivo durante il regime fascista.

Inventò le pensioni

Il regime non fece altro che portare avanti cose già esistenti dal secolo precedente. La prima previdenza sociale vera e propria nasce in Italia nel 1898. L’assicurazione per invalidità e vecchiaia diviene obbligatoria a partire dal 1919. Per la pensione sociale invece dovremo aspettare il 1969.

Le immancabili bonifiche

Le abbiamo studiate tutti a scuola, le bonifiche operate durante il ventennio sono le «cose buone» per eccellenza del regime fascista. Si ricordano spesso quelledella pianura pontina nel Lazioma la prima legislazione in merito risale alla fine del secolo precedente. Il regime non fu il primo ad avviarle. Esistono testimonianze di sistemi di drenaggio delle paludi già dai tempi dei Volsci, fino ai lavori eseguiti durante il periodo pontificio. Durante gli anni ’30 queste opere vennero solo portate a compimento.

Fece il pareggio di bilancio

Il fascismo raggiunse nel giungo del 1925 il pareggio di bilancio, cosa che avvenne già negli anni ’70 dell’800col governo Minghetti. Il pareggio raggiunto agli albori del regime fascista si avvaleva di un periodo precedente di ripresa economica, dove durante l’epoca giolittiana vennero attuate diverse politiche economiche sulle tassazioni e sulle liberalizzazioni. Non siarrivava dunque dal nulla a dover riparare una situazione economica disastrosa.

Cancellò la disoccupazione

Dopo un periodo di inflessione dovuto alla crisi economica del ’29, che dagli Stati Uniti raggiunse l’Europa, ci fu in Italia dal 1933 al 1936 un periodo in cui la disoccupazione sarebbe stata in calo. I dati vanno letti considerando che non si potevano avere numericerti, specialmente sui chi lavorava nelle campagne. Tuttavia dal 1936 in poi risulta un aumento della disoccupazione: si passa da 706 mila disoccupati nel 1936 a 810 mila nel 1938. Certamente l’apertura di numerosi cantieri per realizzare opere pubbliche favorì dal 1934 al 1938 l’impiego di lavoratori, ma con risultati inferiori a quelli di altri Paesi dell’epoca.

Non c’era più corruzione

Per qualche ragione si pensa che vivere sotto un regime, come quello del ventennio fascista, possa in qualche modo scongiurare la corruzione, mentre invece agli storici risulta il contrario. Per descrivere i livelli a cui arrivò la corruzione durante il fascismo si è anche coniato il termine «tangentopoli nera».Nel 2016 spuntarono dai National archives di Kew Gardens, nei pressi di Londra, dei documenti che attestano i traffici illeciti di diversi gerarchi fascisti, comprese varie faide interne, ricatti e ruberie di ogni genere.

Leggi razziali imposte da Hitler

L’antisemitismo in particolare è ritenuto ancora qualcosa di estraneo al fascismo, sarebbe statoimposto con le leggi razziali del 1938 da esigenze di politica estera, per compiacere l’alleato tedesco. Oggi gli storici concordano nell’attribuire allo stesso Mussolini il Manifesto della razza, così come il razzismo in generale era già in parte alla base dell’espansionismo coloniale italiano. Anche l’antisemitismo era insito nel regime, se pure non agli stessi livelli raggiunti dai nazisti, come fa notare lo storico Enzo Collotti:

La strumentalizzazione della lotta contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia nel tentativo di rivitalizzare dall’interno il costume di vita fascista, sia nella sua proiezione verso l’esterno come creazione di un mito collettivo destinato ad assolvere primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra.

Sconfisse la mafia

Tutto ruota attorno alla storia del «prefetto di ferro» Cesare Mori, inviato in Sicilia nel 1924. Effettivamente Mori condusse una lotta energica con migliaia di arresti, da cui buona parte dei latifondisti con legami mafiosi ne uscirono indenni. Senza contare che tutta la campagna contro la mafia si rivelò spesso una copertura per poter eliminare più facilmente gli oppositori del regime. Quando poi Mori passòdai «pesci piccoli» alla persecuzione dei «colletti bianchi» la musica cambiò.

Si scoprìad esempio che il gerarca Alfredo Cucco e il generale Antonino Di Giorgio avevano legami stretti con la mafia. Così Mori riceverà da Mussolini in persona direttive volte a fargli abbandonare le indagini, intimandolo a «provvedere alla liquidazione giudiziaria della mafia nel più breve tempo possibile e limitare l’azione di ordine retrospettivo». Il prefetto di ferro sarà infine rimosso dal suo incarico nel giugno 1929, con una nomina a senatore a vita, mentre la propaganda annunciava solennemente «la mafia è stata sconfitta».


Cari “sbufalatori” di Open, lasciate stare il fascismo. Non fa per voi

di Francesco Carlesi, Il Primato Nazionale – 19 mar 2019

Il desolante livello giornalistico del nostro Paese è stato confermato, una volta di più, dalla compiaciuta «risposta» di Open alla nota affermazione di Tajani secondo il quale il fascismo avrebbe fatto «anche cose buone», come bonifiche e infrastrutture. Parole inaccettabili per i paranoici del politicamente corretto. Invece di aprire seri dibattiti storici o combattere finanza, precarietà e ricatti dell’Unione europea – confessati recentemente dagli ex ministri Saccomanni e Orlando – meglio tuffarsi a capofitto nella guerra al «fascismo in assenza di fascismo». La testata dei seguaci di Mentana ha voluto quindi chiarire che il movimento mussoliniano non avrebbe portato a termine sostanzialmente nulla. Bonifiche, lotta alla mafia, pensioni: tutta fuffa propagandistica. E così leggiamo che «il fascismo non cancellò la disoccupazione e la corruzione» come afferma non si sa bene chi: sembra la risposta piccata di un bambino delle elementari, che finisce però per ridicolizzare una discussione che ha tenuto, e tiene, impegnati fior di storici. Senza contare che, al di là delle chiacchiere da bar, anche i più strenui ammiratori del Ventennio – così come fecero già 70 anni fa i diretti eredi del Msi – non negano le complessità che caratterizzarono quel periodo storico, come d’altronde ogni epoca e la stessa natura umana. Il riferimento al dibattito scientifico – non alle forzate «tangentopoli nere» di giornalisti in cerca di visibilità – dovrebbe essere d’obbligo quando si toccano certi argomenti, al di là dei giudizi di merito e senza negare errori e orrori del regime. Riportiamo quindi alcune citazioni sui punti toccati da Open, per problematizzare i luoghi comuni diffusi. Da loro.

Mafia e fascismo

Secondo molti l’azione del regime tramite il prefetto Mori fu incompleta e propagandistica. Riportiamo in proposito le parole di Giuseppe Tricoli, professore di storia contemporanea a Palermo dal 1972 al 1995, membro dell’Istituto di Storia del Risorgimento e politico missino. Nacque e morì a Palermo, ed era amico fraterno di Borsellino nonché profondo conoscitore della storia siciliana: «La missione di Mori fu ritenuta compiuta da Mussolini, dopo ben cinque anni di permanenza in Sicilia, non perché il “prefetto di ferro” mirasse a colpire sempre più in alto, come affermato da certa storiografia antifascista (che nei frangenti più difficili il capo del governo non aveva mancato anche per vicende discutibili, di essere vicino e solidale con Mori con forza e convinzione) ma perché l’operazione, fin dall’inizio, era stata giustamente considerata straordinaria, onde pervenire ad una normalizzazione del quadro dell’ordine pubblico, anche nella accezione più vasta di risanamento morale e di bonifica sociale, dai fenomeni più inquinanti e devianti nella società siciliana. Questa normalizzazione, grazie all’opera di Mori, era stata raggiunta con la clamorosa azione di polizia e con la definitiva sanzione giudiziaria data dagli organi della magistratura: adesso, come d’altronde affermava lo stesso Mori, bisognava provvedere “allo sviluppo delle sane e poderose energie donde l’isola è ricca”». Il tutto si interruppe con la Liberazione: «È oltremodo significativo che il fronte agrario mafioso si sia ricomposto, tra il ’42 e il ’43, e quindi già in un momento di grave crisi dell’Italia fascista, proprio in avversione all’iniziativa di liquidazione del latifondo siciliano, fino a ricostituirsi come autentico blocco, prima a sostegno dello sbarco alleato, nel luglio ’43, poi come struttura portante, anche istituzionale, della Sicilia antifascista». Citazioni tratte da Il fascismo e la lotta contro la mafia, ISSPE, Palermo, 1989.

Pensioni

Pochi negano le continuità tra periodi storici e le prime riforme sociali dei governi liberali prefascisti. Indubbiamente però nel Ventennio si posero le basi per la modernizzazione del Paese, creando l’architrave di uno Stato sociale che ha retto brillantemente per decenni. Lasciamo la parola allo storico Giuseppe Parlato: «Nel marzo 1923 venne sancita la giornata massima lavorativa di otto ore (era il cavallo di battaglia dei socialisti prima della guerra) e nel dicembre successivo viene dichiarata obbligatoria l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia (quella vantata del 1919, ma che solo il fascismo convertì in legge ndr), primo passo per la creazione di una struttura pensionistica, prima inesistente in questa forma, perfezionata nel 1927 ed estesa agli eredi. La Carta del Lavoro sviluppa un’ideologia previdenzialistica e i campi d’intervento sono: perfezionamento e estensione dell’assicurazione infortuni (realizzati con decreto del dicembre 1926), delle malattie professionali (assicurazione contro la tubercolosi nel 1927, mutue obbligatorie nel maggio 1929), della disoccupazione involontaria. Fu poi istituito il contratto collettivo di lavoro e vengono introdotti gli assegni familiari. Nel 1935 viene introdotta la settimana lavorativa di 40 ore allo scopo di riassorbire la disoccupazione; fra il 1934 e il 1938 viene allargata a tutti i settori produttivi l’assicurazione obbligatoria di malattia; l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, prima della guerra molto ristretta, fu estesa a tutti i settori con la creazione dell’INFAIL (oggi INAIL), che sostituì la vecchia Cassa nazionale infortuni. Si definisce l’assicurazione contro le malattie professionali (prima sconosciute) e questa materia viene affidata all’INFPS (oggi INPS) che si potenzia diventando il vero motore dello Stato sociale. Sempre all’INFPS viene affidato il settore sempre più vasto dell’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, che a metà degli anni Trenta ha coperto tutti i settori produttivi e professionali.

Teniamo presente che, oltre ai provvedimenti qui ricordati, nascono anche l’Ente Opere Assistenziali del PNF e il Patronato Nazionale di Assistenza Sociale, organo legato al sindacato fascista, che si occupa di sensibilizzare nel mondo del lavoro la cultura previdenziale». E ancora: «nel 1941 viene introdotta la Cassa integrazione guadagni (che il sito dell’INPS dichiara essere stata creata fra il 1968 e il 1969). Ricordiamo anche le ferie pagate e l’invio di bambini nelle colonie estive e montane, nonché i treni popolari a supporto di chi andava in ferie. Furono provvedimenti adottati nella prima metà degli anni Trenta per permettere le ferie a chi non si era mai mosso di casa. Prima della Grande guerra in ferie andavano solo i ricchi. E tutto questo fu utile per lo sviluppo dell’ENIT (Ente Nazionale per il Turismo)». Senza menzionare i vasti piani di edilizia popolare o l’Onmi e la sua opera di assistenza a gestanti, madri e bambini. Le conclusioni, condivise anche da un esperto sul tema come A. James Gregor, sono nette: «Occorre ricordare che il diritto del lavoro in Italia nasce negli anni Venti e diventa disciplina universitaria. Per inciso, questo sistema viene mantenuto nel dopoguerra senza modifiche sostanziali, finché in Italia è esistito uno Stato sociale» (Storia in Rete, n. 150, aprile 2018).

Conti pubblici, occupazione, bonifiche

È indubbio che durante il fascismo le dinamiche occupazionali e salariali conobbero momenti altalenanti e spesso difficili per i lavoratori, anche se dati Istat dicono che i consumi degli italiani nel ’35 erano gli stessi del ’55, agli albori del boom economico reso possibile anche dalla struttura economica edificata dal regime. In una situazione segnata irrimediabilmente dalla crisi internazionale del ’29, il fascismo risanò i conti pubblici nell’immediato dopoguerra e impostò le basi un vero e proprio modello sociale originale negli anni Trenta. La legge bancaria del ’36 impedì le speculazioni finanziarie che oggi sono tornate di moda, l’Iri («un colosso onesto, efficiente, competente» che all’epoca allevò una classe manageriale preparatissima) divenne il volano dell’industrializzazione italiana, i piani autarchici favorirono l’innovazione, il Codice civile pose le basi la collaborazione e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, «i lavori pubblici avviati avrebbero rappresentato comunque un’eredità fondamentale per il futuro non solo immediato ma anche per i decenni seguenti» come ha scritto Augusto Grandi in Eroi e Cialtroni (Politeia, Torino, 2011). In questo contesto, banalizzare le imponenti opere di bonifica e la fondazione di borghi e città come mai nella storia unitaria appare davvero pretestuoso. Sul tema, basta leggere Fascio e Martello di Pennacchi o Dal fascismo alla Dc di Zaganella per capire i contorni quasi epocali della questione. Parlato ha ricordato che «il regime bonifica territori e costruisce centri abitati (le Città di fondazione) fino al suo crepuscolo. Giuseppe Tassinari, ministro dell’Agricoltura, lancia l’assalto al latifondo pugliese nel 1938-1940 e quindi quello contro il latifondo siciliano nel 1940-1943. Nel feudo dei Nelson, nella ducea di Bronte, il 2 gennaio 1940 il regime decide l’esproprio e la costruzione di otto borghi ai quali se ne aggiungono altri sei: uno di questi è il borgo Caracciolo, così chiamato per ricordare l’ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della rivoluzione giacobina a Napoli del 1799 e poi impiccato da Orazio Nelson. Non appena arrivarono gli alleati in Sicilia, il borgo fu distrutto e la ducea tornò in mani britanniche».

Leggi razziali

Una pagina triste e oscura per il nostro Paese. Il fatto però che l’antisemitismo fosse «insito» al fascismo è materia di dibattito. Le infauste leggi arrivano solo dopo 16 anni di regime, quando tanti ebrei hanno appoggiato la rivoluzione delle camicie nere nelle più diverse forme, da Ovazza e Jung alla Sarfatti. Nonostante le discriminazioni, nel secondo conflitto mondiale «il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo» come ha rilevato lo storico dell’Università di Gerusalemme George L. Mosse (Il razzismo in Europa, Laterza, Roma, 1992). I testi di De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo) e Filippo Giannini (Gli ebrei nel ventennio fascista) restano fondamentali per capire un periodo in cui anche le potenze democratiche, colonialiste e imperialiste, erano tutt’altro che immuni da pregiudizi razziali.


Il passato e noi: la paura dell’eterno fascismo

di Ernesto Galli della Loggia, corriere.it – 31 October 2021

All’indomani del rapporto Krusciov sui crimini dello stalinismo Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, diede sull’argomento una famosa intervista, nella quale a un certo punto si legge testualmente: «Stalin non commise solo errori ma fece anche delle cose buone» (c.vo mio). Erano parole dette per spiegare con un ovvio dato di fatto la popolarità di cui a suo tempo aveva goduto il dittatore sovietico. Ora mi chiedo: se — a proposito di colui che era responsabile dell’assassinio di alcuni milioni d’innocenti — una persona avveduta come Togliatti poteva, senza che nessuno lo accusasse di voler impiantare il gulag in Italia, dire una verità lapalissiana come questa (ad esempio aver contribuito alla vittoria sul nazismo, sia pure dopo essercisi alleato, era stata certamente una «cosa buona»), perché mai, invece, dire di Mussolini che «ha fatto anche delle cose buone» — come hanno sempre detto e dicono ancora oggi milioni di nostri concittadini — dovrebbe essere la prova allarmante che gli italiani non hanno mai smesso di essere fascisti, e che perciò l’Italia intera corre sempre il rischio di divenire tale?

Precisamente questa, come si sa, è la convinzione cara a una certa pubblicistica democratica, in modo particolare di sinistra, ripresa con grande vigore polemico negli ultimi tempi in molti discorsi, articoli, prese di posizione varie nonché da almeno una decina di libri. Sempre per ribadire la tesi di una sorta di fascismo eterno la cui minaccia graverebbe in permanenza come una spada di Damocle sulla nostra testa.

Ma negare la realtà non ha mai fatto bene a nessuno: tradisce solo un’intima insicurezza nelle proprie idee e nei propri valori. Dunque si può e si deve tranquillamente ammettere che, sì, il fascismo fece anche delle cose buone (e si può aggiungere che sarebbe stata un’impresa davvero strepitosa non riuscirne a fare neppure una nella bellezza di venti anni?). La creazione dell’Iri e di Cinecittà, la legge bancaria del ’36, la bonifica di centinaia di migliaia di ettari di terreni paludosi, le colonie marine, il rafforzamento di tutte le precedenti forme previdenziali, l’introduzione degli assegni familiari, l’istituzione del liceo classico, furono tutte ottime cose. E anche l’idea che i treni debbano arrivare in orario non è certo in sé da buttar via.

Ma che cosa vale tutto ciò di fronte all’altro lato della medaglia? Di fronte al non potere senza permesso stampare un volantino o convocare una riunione pubblica per discutere di una qualunque questione, al non poter abbonarsi a un giornale straniero di proprio gusto o organizzare un sindacato? Che cosa vale di fronte all’essere guardati con sospetto se invece di un buon cattolico si è per caso un valdese, alla possibilità di essere fermati e arrestati a discrezione di qualunque poliziotto, di dover restare sempre zitti e buoni, pena un pestaggio o un litro di olio di ricino, di fronte al primo idiota che indossi una camicia nera? all’obbligo di dover essere sempre d’accordo in pubblico con quello che pensa o decide Lui? E che cosa valgono oggi, retrospettivamente, tutte le «cose buone» di cui si è detto sopra di fronte alle leggi razziali, alla decisione di allearsi con le belve per fare una guerra, per giunta senza neppure curarsi di disporre dei mezzi necessari, di fronte alle distruzioni senza pari abbattutesi di conseguenza sulla Penisola?

Pensare — come sembrano pensare molti democratici — che il semplice fatto di dire che il fascismo ha fatto «anche delle cose buone» equivalga ad essere dei criptofascisti, e che una tale opinione diffusa testimoni di un pericolo fascista, pensare ciò implica logicamente due conseguenze entrambe inaccettabili. La prima è l’idea che si può essere antifascisti solo credendo che la storia sia sempre tutta bianca o tutta nera, cioè credendo una cosa che nel novanta per cento dei casi è una palese idiozia, e che pertanto se del fascismo non si ha una visione come del male assoluto, di una sequela ininterrotta di errori e di malefatte (una visione, sia detto tra parentesi, che nessuno storico serio ha mai avuto, ma neppure un grande politico come il già citato Togliatti: si veda il suo celebre «Corso sugli avversari» del 1935 ), allora vuol dire essere già dalla sua parte.

La seconda conseguenza inaccettabile è che si mostra così di non avere in realtà alcuna fiducia nell’amore e nel gusto per la libertà degli italiani. Si mostra infatti di credere che alla gente non importerebbe poi molto godere o no della libertà, non importerebbe molto di poter votare, di eleggere un Parlamento, di essere libera di leggere un giornale ostile al governo e di altre quisquilie del genere, dal momento che, si pensa, il fatto in quanto tale di essere privati di tutto ciò — come per l’appunto a suo tempo fece il fascismo — questo fatto da solo non le farebbe in realtà né caldo né freddo. A convincere gli italiani ad abbracciare l’antifascismo, insomma, varrebbe solamente la convinzione che il regime mussoliniano sarebbe stato dal primo all’ultimo giorno una specie di arca di nequizie senza nome.

Una parte dell’opinione democratica del nostro Paese eredita questo punto di vista dai giorni lontani dell’immediato dopoguerra. Quando cioè i partiti del Cln, sconosciuti ai più, e consapevoli della debole legittimazione con la quale si affacciavano alla guida del Paese, di un Paese per giunta totalmente digiuno di cultura democratica, non potevano permettersi alcuna distinzione, avendo solo l’ovvia necessità di presentarsi come i rappresentanti del bene in contrapposizione al male. Ma è davvero così ancora oggi? E se per caso lo fosse — cosa che personalmente mi ostino a non credere — non equivarrebbe ciò alla più clamorosa ammissione di fallimento della democrazia italiana, di tutte le sue istituzioni, della sua scuola, di tutti i suoi partiti, di tutti i suoi protagonisti? Davvero la Repubblica deve avere paura ancora oggi, dopo settant’anni, del ricordo della bonifica pontina e delle trasvolate di Italo Balbo?

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